Luca Bottazzi: “Ecco perché Bill Tilden è stato il Leonardo del tennis”

Il 5 giugno 1953, Williams Tatum Tilden fu trovato morto in un piccolo appartamento in affitto a Hollywood, Los Angeles, stroncato da un infarto, poverissimo e solo. Questo l’epilogo di uno dei tennisti più grandi di tutti i tempi, vincitore di 21 Slam (10 in singolare) e numero uno incontrastato per oltre un decennio. Tilden, oltre ad essere stato uno dei primi veri atleti del nostro sport, è stata la prima vera superstar del tennis, insieme a Suzanne Lenglen. Fisico possente e tuttavia agile come un gatto, ‘Big Bill’ era soprannominato anche “Blue Grizzly”, per i maglioni blu a lana sfrangiata che aveva iniziato a indossare sui campi da gioco, segno eloquente di un carattere anticonformista e rivoluzionario. Al culmine della sua carriera, alternava le vittorie sui verdi prati dell’All England Club alle feste di Hollywood in compagnia di Charlie Chaplin e Greta Garbo. Una vita di ricchezza e di successi prima della caduta, tra la perdita delle fortune, le condanne per omosessualità e la successiva emarginazione da quel mondo che fino a poco tempo prima lo aveva celebrato.

Quello che molti non sanno, però, è che Tilden fu anche uno dei maggiori teorici della scienza del tennis: autore di libri tecnici e manuali che avrebbero avuto profondo successo. Il pensiero di Tilden, per molti aspetti rivoluzionario e ancora attuale, negli ultimi decenni è stato ingiustamente dimenticato. L’ex tennista e telecronista sportivo Luca BottazziCarlo Rossi, docente di Scienze Motorie all’Università di Milano, hanno appena pubblicato Il Codice del tennis. Bill Tilden. Arte e scienza nel gioco (GueriniNext Editore) che si propone di recuperare e diffondere l’eredità di Tilden. Il libro, frutto di un’intensa analisi dei suoi testi, è un’importante contributo alla cultura e alla tecnica del tennis e insieme un sentito omaggio al campione di Philadelphia. Oltre al libro, è stato creato un interessante blog, Tildenmania, ed è partita una petizione per intitolare a Tilden uno dei campi del ‘nuovo’ Flushing Meadows (l’obiettivo è 1 milione di firme; per contribuire cliccare qui). Per saperne di più su quest’opera abbiamo sentito Luca Bottazzi, che ci ha rilasciato una lunga e interessante intervista.

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Come ti è venuta l’idea di scrivere questo libro?

Seguivo e ammiravo da tempo Tilden, e mi piacque molto la sua biografia di Frank Deford, Big Bill Tilden: The Triumphs and the Tragedy. Un giorno parlai del mio progetto con uno dei miei vecchi maestri, il grande John Newcombe, che mi ha incoraggiò a iniziare. Mi mise in contatto con Richard Hillway, suo amico e massimo esperto del tennis americano, che conservava tantissimo materiale su Tilden, tra fotografie, cronache e scritti inediti, frutto delle numerosi interviste che aveva fatto ai cronisti dell’epoca, come Bud Collins, e a campioni come Lacoste, Kramer e Perry.
Anche grazie a lui potei leggere i libri scritti da Tilden, che nella sua vita ha scritto ben 32 libri tecnici. E’ stato duro orientarci in questa giungla e fare una selezione che sintetizzasse la summa del grande campione, anche grazie all’aiuto di Gianni Clerici, autore – insieme a Newcombe – della prefazione. La nostra scelta ha toccato tre volumi: The Art of Lawn Tennis, il primo di Tilden, scritto nel 1920, che abbiamo tradotto quasi per intero; Match Play of The Ball, del ’25, che integra il primo; infine, How To Play Tennis, l’ultimo scritto da Tilden tre anni prima di morire, degno capitolo finale di una vita dedicata al tennis.

A chi è destinato questo libro e perché è utile leggerlo?

E’ un libro interessante per tutti: chi gioca – dal quarta categoria al giocatore di Coppa Davis, può essere letto da insegnanti – perché insegna l’arte del gioco attraverso la scienza dell’insegnamento. Dal genitore, perchè sono contenuti precetti fondamentali su come educare la mente e la personalità dell’individuo, oppure da chi il tennis lo guarda in Tv, per capire come i campioni interpretano il gioco. Infine, anche per chi il tennis non lo guarda, perchè il libro ha in sé una storia di sport ma soprattutto di vita folgorante. Nel nostro libro abbiamo cercato di sintetizzare la summa del pensiero di Tilden, che oggi è ingiustamente ancora troppo sconosciuto. Ed è anche per questo che nelle scuole tennis, la didattica è rimasta all’età della pietra: si studiano i colpi, i movimenti, le impugnature, ma non si educa davvero. Per questo credo che il nostro lavoro colmi un vuoto: oggi non si contano le storie, le narrazioni della storia del tennis da una parte e i manuali tecnici dall’altra, ma un libro che analizzasse in modo sistematico e completo il pensiero di uno dei maggiori teorici del tennis non si era mai visto.

Chi è stato Bill Tilden?

Tilden è stato non solo uno dei più grandi tennisti della storia, senza dubbio alcuno il più grande degli anni ’20, con il 93,6% di match vinti sui totali e diversi record tuttora imbattuti; egli è stato il massimo teorico di questa disciplina, che alla sua epoca era ancora ai primi passi. Nessuno come lui ha dedicato la vita a questo sport, segnando il passaggio al tennis moderno. E’ stato anche per merito suo che il tennis, da sport-passatempo per l’élite, è diventato uno sport popolare, seguito e praticato anche dalle fasce meno abbienti. Grazie a lui scompare il giocatore da un colpo solo e nasce il tennista all-court game, l’atleta completo dal punto di vista fisico e tattico. Ed è stato lui, insieme alla divina Lenglen, il primo vero Divo del tennis, idolatrato dalla folla che si accalcava sugli spalti per vedere le sue partite. Anche per questo nel 1922 Wimbledon cambiò sede e si spostò a Church Road, per contenere un pubblico più vasto: il tennis si stava diffondendo e i giocatori, da anonimi dilettanti, si stavano trasformando in vere superstar, professionisti sempre più pagati. Tilden fu uno dei primi a percepire, anzi esigere, questi cambiamenti. In un certo senso, fu un uomo rivoluzionario, contro il sistema.

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Hai definito Bill Tilden il Leonardo da Vinci del tennis. Ci può spiegare questo paragone?

Come Leonardo, Tilden è stato l’unico a coniugare arte e scienza, ad essere uno straordinario giocatore e un fenomenale teorico. Come diceva Tilden, i campioni sono i magnifici interpreti dell’arte del gioco, grazie al loro talento; talento che però è spesso inconsapevole, perché il talento ha in sé il limite di non essere un metodo. Lui, invece, è stato uno dei primi a creare un metodo, un sistema: è quello che io chiamo il Tilden-pensiero, che abbiamo cercato di sintetizzare nel nostro libro. Nel capitolo Il Codice di Tilden io e Carlo Rossi abbiamo messo i punti fondamentali, che corrispondono a essenziali domande: come imparare – e insegnare – il tennis, come scegliere il maestro, l’equipaggiamento, come educare la propria vista, la propria mente e il proprio corpo – ma anche come intuire il movimento della palla e le condizioni della superficie. E infine, come giocare la partita, riconoscere il punto più importante del game e il game più importante del set. Lo scopo di Tilden è diffondere l’arte del gioco insegnando la scienza e la pratica del tennis, insegnando precetti che sono validi ancora oggi. Dava grandissima importanza agli esercizi mirati al gioco oltre ai colpi; riteneva l’errore, più del punto vincente, un essenziale strumento di miglioramento per il campione, che imparava ad accettarlo cercando di limitarlo per trovare soluzioni per aggiudicarsi la partita. Tilden è poi riuscito a prevedere a decenni di distanza moltissimi aspetti del tennis di oggi: la progressiva sparizione dei campi in erba in favore di terra e cemento, un gioco più rapido da fondo campo e basato sul rimbalzo, lo sviluppo dei materiali e la nascita di tennisti-atleti, vere e proprie macchine da guerra dal punto fisico e mentale. Leonardo aveva teorizzato le ‘macchine per volare’ secoli prima che potessero essere costruite: Tilden ha fatto lo stesso, nel tennis. .riteneva l’errore.

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Tilden ha vinto il suo primo Wimbledon a 27 anni, nel 1920, dopo lunghi anni di allenamento ed esercizio costante, grazie alla sua determinazione indefessa; tutta un’altra cosa rispetto ai ragazzini prodigio di oggi. 

E’ vero, ma bisogna renderci conto che era un’epoca diversa. Tilden aveva già vinto i Campionati americani in doppio misto assieme a Mary Browne nel ’13, quindi era già un campione. Gli anni della guerra, quando i tornei erano fermi, hanno permesso a lui – come alla Lenglen – di perfezionare ogni aspetto tecnico-tattico, per poi esplodere il decennio successivo. Tilden sapeva che il tennis era nella culla, e che si sarebbe sempre più evoluto fisicamente e tecnicamente, e che “faranno risplendere le meravigliose gesta degli anni ’20”; ecco un altro aspetto che lo distingue da tanti altri campioni, puntualmente convinti di essere i protagonisti dell’età dell’oro del proprio sport.

Secondo te, Tilden sarebbe soddisfatto del tennis di oggi?

Sì, senza dubbio. Se faccio la domanda: ‘E’ meglio il tennis di ieri o di oggi?’. Le risposte sono diverse. Ma se mi chiedo: ‘Sono meglio gli atleti di ieri o quello di oggi?’, la risposta è scontata. Allora i giocatori erano atleti naturali che praticavano semplicemente dello sport. Oggigiorno sono delle vere e proprie macchine da guerra, che aggiungono il supporto della scienza moderna, della tecnologia e di allenamenti forzati. Abbiamo la fortuna di vivere in un’epoca in cui giocano tre dei tennisti più forti di sempre, in un circuito estremamente competitivo. Come Tilden aveva previsto, il tennis ha fatto passi da gigante.

Eppure non sono pochi gli appassionati che criticano il gioco di oggi, basato sulla potenza dei colpi e sulla fisicità, ricordando nostalgicamente il tennis elegante ‘dei gesti bianchi’.

Sciocchezze. E lo dice un appassionato che ha scritto un libro intero sul tennis che fu. Si tratta semplicemente di stili diversi, come ad esempio nella pittura, quella Rinascimentale e quella Cubista. Non si possono paragonare, come non si possono paragonare i campioni di ieri e di oggi. Un conto è il gusto per lo stile, un altro è non riconoscere che gente come Nadal e Federer sono fortissimi e hanno raggiunto livelli nell’arte del gioco che pochi altri hanno saputo toccare.

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Non so se hai sentito la recente polemica del tennista parigino Gilles Simon sul talento. Secondo lui molta gente ha una visione errata di esso, riconoscendolo come una questione di stile. Per questo sostiene che non sia giusto che il talento di Djokovic sia sottovalutato rispetto a quello di Federer, oppure il suo rispetto a quello di Tsonga. 

Ha ragione: la gente non ha idea di cosa sia il talento: perché esso ha diversi volti, come l’intelligenza. Secondo il libro Intelligenze multiple, di Howard Gardner, uno degli psicologi più autorevoli del mondo. Esistono più intelligenze contemporaneamente, quella oculo-manuale, fisica, nervosa, mentale, che si legano insieme. In sintesi, il talento e’ la capacita’ di capire prima degli altri e di scegliere meglio la cosa giusta da fare al momento giusto e poi raccogliere i dati. Chi crede che un tennista talentuoso sia, direttamente, chi ha una gestualità fluida ed elegante dimostra una sostanziale ignoranza.

Forse il problema maggiore del tennis, così come di altri sport, è che è diventato troppo fondato sull’immagine e sul business, perdendo molto della sua essenza originaria.

Questo è stato già evidente negli anni di Connors e di McEnroe, quando gli è stato permesso di comportarsi spesso sopra le righe perché erano campioni e attiravano migliaia di fan. Oggi, ancor più di ieri, si lasciano troppe libertà ai giocatori: le donne gridano a decibel impressionanti e molti giocatori sforano i secondi consentiti tra un punto e l’altro senza essere puniti dagli arbitri. Vengono concesse troppe libertà ai protagonisti del tennis, forse senza capire che così facendo si degrada la natura di questo sport. Anche in questo senso c’è bisogno di un’educazione culturale del pubblico, ma anche dei tennisti, degli allenatori e degli addetti ai lavori.

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