Arriva, come fin troppo prevedibile, la vittoria della Francia sull’Italia nel quarto di finale di Davis che questo weekend si è svolto sui campi in terra rossa di Valletta Cambiaso, a Genova, dopo la conquista dell’ultimo punto da parte di Lucas Pouille trionfante su Fabio Fognini in quattro set.
Nonostante svariate teorie patriottiche che negli ultimi periodi affollano le bacheche dei maggiori siti tennistici nostrani, evidenziando possibilità, tattiche ed incroci astrali favorevoli, il successo transalpino non è mai stato in discussione. Troppa, evidenza difficile da accettare, è la differenza che separa le due scuole, confermata, oltre da motivazioni di tipo tecnico superficialmente meno riscontrabili, dalle dieci vittorie ottenute in Davis dai francesi (oltre ad otto finali) ed un numero sproporzionato di giocatori top 10 coltivati con maestria nel tempo.
La formazione d’oltralpe si presenta all’appuntamento italiano con una squadra formata da riserve. Singolari con il candido Pouille, che nonostante attualmente rappresenti il numero 1 nel proprio paese viene spesso lasciato soggiornare in panchina quando sul campo scendono i giocatori della passata generazione (Tsonga, Gasquet, Monfils, Simon), e Chardy, solitamente nemmeno annoverato tra i nomi papabili di convocazione, oltre alla coppia di doppio, quella sì da definirsi di ruolo, nella quale Herbert e Mahut, dopo anni di complicità e vittorie, hanno raggiunto una sintonia difficilmente contrastabile.
Plotone italico che da un decennio non cambia di una virgola, salvo sporadiche comparse di nomi giovanili (Berrettini in questo caso) che fungono soltanto da orpello in un piano di gioco apparentemente immutabile. Fognini e Seppi singolaristi storici, Fognini-Bolelli coppia di doppio ancora ebbra di vittoria Slam.
Impossibile, quando si parla di Davis, criticare Fabio, che dimostra ed ha sempre dimostrato un attaccamento alla maglia encomiabile ed ha più volte portato la nazione al successo con le sue sole vittorie. È però corretto, dopo una sconfitta patita meritatamente, compiere un confronto con quella che è ormai da tempo la miglior scuola di tennis al mondo, così da estrapolare conclusioni costruttive che possano dare una scossa ad un panorama tennistico italiano sotto l’effetto, da quel 1976 di fuoco, di potenti barbiturici.
I francesi, pur con difetti di egocentrismo ed autoreferenzialità difficili da nascondere, lavorano con la Federazione in maniera ottima. Con un folto vivaio, costantemente aggiornato grazie al lavoro di tecnici federali che si occupano dell’osservazione dei giovani più interessanti, riescono a produrre centri di allenamento nazionali dal livello medio eccelso.
Questo, come logica conseguenza, porta un progressivo innalzamento del valore tecnico dei giocatori, giornalmente impegnati in confronti con avversari di alta caratura.
Lo stimolo quotidiano, dato da un gruppo forte, è la scintilla in più che permette agli interpreti meritevoli di compiere il definitivo salto di qualità. Completezza, parola chiave rubata alla metodologia spagnola, che genera atleti capaci di ogni tipo di colpo, superando però gli i ispiratori iberici grazie ad una fantasia innata che storicamente scorre nelle vene dei francesi.
In quella contemporaneità che molti definiscono omogenea, plumbea e stazionaria, gli interpreti della scuola transalpina continuano a rappresentare una rarissima perla di anacronismo, prodigandosi in un gioco che, nessun altro Stato al mondo, è in grado di insegnare ai propri tesserati. In Francia non esiste una scuola di pensiero che impone ai tecnici di insegnare uno stile di gioco predefinito perché vincente e, come isola felice in un continente, l’Europa, ormai da un ventennio venuta a rappresentare nel tennis la più grande potenza a livello mondiale, è l’unico luogo in cui, almeno apparentemente, ogni aspirante professionista possa sentirsi libero di giocare nella maniera in cui meglio crede, trovando un ambiente aperto all’interno del quale ogni stile, o personale invenzione, sia accettata.
Così vicini geograficamente, eppure mentalmente così lontani.
La FIT, incapace di apportare un ricambio generazionale, si aggrappa da decenni ai medesimi interpreti, sperando che questi compiano il miracolo per poi fregiarsi di un merito che non le appartiene. È arrivato il momento, con sincera umiltà, di osservare le realtà vincenti ed imparare da loro.
Il tutto si racchiude in banale discorso di metodo, che, nella sua semplicità, porta due nazioni popolate da (circa) lo stesso numero di abitanti a sviluppare un simile divario a livello di risultati.
I numeri parlano chiaro, è ora di imparare dalla Francia.