La prima cosa che si prova concludendo la lettura di “Tennis” di John Mc Phee è: vergogna. Vergogna per chi ha solo provato a raccontare almeno una volta un incontro di tennis e ha provocato noia nel lettore e si è giustificato sfarfallando sull’aridità della materia.
Peraltro l’oggi ottantatreenne leggenda del “New Yorker” edifica una pietra di paragone difficilmente raggiungibile: prende un match non indimenticabile come la semifinale degli US Open tra gli occhialuti yankee Arthur Ashe e Clark Graebner, la scarnifica e poi la ricompone con la precisione dell’entomologo e la saggezza dell’onnipotenza dovuta all’abilità di scrittura e al riuscito tentativo di assorbire tutte le notizie conoscibili: strappate le bobine del match alla distruzione nei depositi della CBS le rivede ossessivamente in compagnia dei protagonisti, sia in campo che sugli spalti.
Ne esce un libro che ne contiene tanti altri: un manuale di tennis, utilissimo anche oggi; uno spaccato dell’America della fine degli anni 60 attraverso la vita dei due tennisti, il primo grande tennista nero e il classico tennista WASP tirato su dal padre dentista; la storia, per certi versi audace, della nascita e della crescita del movimento tennistico nero statunitense; l’impressionante anamnesi colpo per colpo dell’incontro perché ogni tennista ricorda tutto, scelte colpi e lettura del pensiero avversario.
I problemi e le critiche al tennis sembrano quelle di oggi: gli scambi durano troppo poco, le nuove racchette facilitano i picchiatori, si giocava meglio prima: la crisi di passaggio dell’inizio dell’Era Open.
E se la lettura della prima parte del volume, titolata “Livelli di gioco”, è puro godimento, altrettanto interessanti sono la seconda, in cui il curatore Matteo Codignola rivela il making of e fa interessanti considerazioni su tennis e cinema e narra come gioca a tennis Nanni Moretti; e la terza in cui Mc Phee si reca a incontrare Robert Twynam, il giardiniere capo di Wimbledon, che ci accompagna tra i segreti del manto verde e su come viene mantenuto. E’ la storia di una ossessione, naturalmente, e anche qui si scoprono cose che non sarebbero ovvie tipo che l’erba verde che sembra splendida non è il fondo migliore su cui giocare.
Nonostante siano serviti 45 anni per portare in Italia questo capolavoro l’impressione è che questo classico diventerà uno dei numerosi long seller della scuderia Adelphi.
Consigliato a tutti, in particolare come regalo a chi non capisce perché ci piacciono racchette e palline.
John Mc Phee, Tennis, Adelphi, Roma, 2013, p.222, 15,00. A cura di Matteo Codignola.