“Odio intensamente le discriminazioni razziali, in ogni loro manifestazione. Le ho combattute tutta la mia vita, le continuo a combattere e lo farò fino alla fine dei miei giorni.” (Nelson Mandela).
Negli ultimi giorni i principali media di tutto il mondo, Italia compresa, hanno annunciato il ritorno, dopo 14 anni, di Serena Williams a Indian Wells. Nel 2001, la numero 1 del mondo sconfisse Kim Clijsters in finale, ma trascorse ore nello spogliatoio a piangere. Il perchè è ben noto a tutti ormai. L’americana fu fischiata e, insieme alla famiglia, fu vittima di insulti razzisti. A distanza di tutti questi anni, Serena ha deciso di concedere una seconda chance al pubblico californiano, anche se ha ammesso che non sa come potrebbe reagire se si ritrovasse coinvolta in una situazione simile.
Per lei, la via del perdono è durata 14 anni, ma il coraggio di ritornare a giocare per il pubblico che l’ha fatta soffrire, dimostra che Serena Williams ha vinto anche contro il razzismo deponendo l’ascia di guerra e facendo trionfare il senso del perdono.
Ricordiamo che le sorelle Williams, non molto tempo fa, sono state vittime di un commento poco gradevole da parte del presidente della Federazione russa, Shamil Tarpischev, che nel corso di un programma televisivo ha fatto riferimento alle americane chiamandole “fratelli”. La WTA lo ha inibito per un anno e inflitto una multa di 25 mila dollari. Stacy Allaster, presidentessa della Women’s Tennis Association, ha commentato la vicenda definendola offensiva e umiliante. Il presidente russo si è poi scusato dichiarando: “Non volevo essere offensivo o prendermi gioco di nessuno, mi dispiace che la mia battuta, una volta tradotta in inglese, sia stata estrapolata dal contesto e che abbia attirato così tanta attenzione”. Serena Williams, a sua volta, non si è risparmiata ed ha riservato al presidente poche parole ma significative e dirette: “Penso che sia stata un’uscita molto indelicata ed estremamente sessista e razzista allo stesso tempo. Credo sia stata anche, in un certo senso, un’affermazione da prepotente. Non mi e’ piaciuta e penso non sia piaciuta a molta gente”. Se ci si sofferma a fare un’indagine alla ricerca di episodi di razzismo nel tennis, si rimane sconcertati. Si scopre che, in realtà, il razzismo è radicato nel tennis quanto in uno sport come il calcio e alcuni espisodi risalgono addirittura a molti anni fa. Tra i moltissimi che abbiamo riscontrato navigando sul web, decidiamo di riproporre quelli più significativi, che dimostrano quanto il razzismo sia presente nello sport che amiamo e che noi appassionati continuiamo a definire a gran voce che “lo sport che non sarà mai il calcio”. Eppure, anche solo effettuando una veloce ricerca, gli episodi razzisti non sono poi così rari nel tennis. Il più clamoroso risale al 1975 e il protagonista fu Arthur Ashe. Quello stesso anno vinse Wimbledon, ma fu vittima di uno degli episodi razzisti della storia tennis che è d’obbligo citare.
Zina Garrison
Pam Shriver
L’episodio vide protagoniste Zina Garrison e Pam Shriver (entrambe statunitensi) al torneo femminile di Birmingham. Garrison accusò Shriver (presidentessa delle giocatrici) di razzismo e minacciò anche di dimettersi dal consiglio dell’associazione. Secondo la ex tennista statunitense di colore, l’avversaria Shriver l’avrebbe più volte insultata durante il match. E pensare che insieme vinsero la medaglia d’oro olimpica nella categoria di doppio femminile!
Brydan Klein
Facendo un salto temporale, il 13 giugno del 2009, l’allora 19enne Brydan Klein, fu squalificato per 6 mesi per aver rivolto insulti razzisti all’avversario sudafricano Raven Klaasen durante un match di qualificazione del torneo di Eastbourne. In più, fu chiamato a rispondere di una multa di 7000 euro.
Raven Klaasen
Il giovane tennista australiano usò l’espressione “Kaffir” rivolgendosi all’avversario. In un primo momento, non risultò chiaro cosa volesse dire esattamente la parola in questione, ma a seguito di un’indagine condotta dall’ATP, il significato del termine fu inequivocabile: “Negro”. Klein fu dichiarato colpevole di condotta antisportiva e qualche mese dopo gli venne offerta la possibiltà di ridurre i mesi di squalifica da sei a due, a patto che frequentasse un seminario di sensibilizzazione sul tema del razzismo.
Shahar Peer
Lo stesso anno, durante il torneo del Dubai Tennis Championships, Andy Roddick, detentore del titolo, decise di non partecipare al torneo in segno di protesta contro la decisione degli Emirati Arabi di negare il visto all’atleta israeliana Shahar Peer. Nel 2012, il razzismo colpì anche un allenatore del mondo del tennis.
Tony Minnis
Tony Minnis, ex allenatore della squadra femminile di tennis della Louisiana State University, fu protagonista di una forte discriminazione razziale della quale volle sporgere denuncia. Il coach Minnis denunciò il fatto che gli allenatori “bianchi” ricevessero stipendi molto più alti rispetto agli allenatori di colore. Si parlò di ben 30.000 dollari in più all’anno. In più, secondo l’ex allenatore l’ambiente in cui lavorava era minato da azioni a sfondo razzista.
https://www.youtube.com/watch?v=HO-fHOHR8B8
Quello che voleva semplicemente essere un divertente intrattenimento, si è trasformato in caos mediatico e, nel giro di poche ore, alcuni blogger si sono scatenati contro la bella danese accusandola di razzismo. Ora, se pensiamo che Caroline e Serena sono “amiche per la pelle” fuori dal campo, sicuramente non potremmo pensare che la danese abbia “imitato le gentil forme” dell’amica per disprezzarla o per discriminazione nei confronti delle donne di colore. A maggior ragione, considerati gli espisodi di razzismo di cui è stata protagonista la più giovane delle sorelle Williams, siamo certi che, se si fosse trattato di un episodio discriminativo, non si sarebbe risparmiata neanche nei confronti dell’amica. Dopo avervi sottoposto alcuni dei tanti casi di razzismo nel tennis, è doveroso aggiungere una nota. Non è vero che il razzismo appartiene al passato, non è vero che siamo nel 2015 e che la diversità è apprezzata e amata quanto la “normalità” (o quella che definiamo tale). Oggi, purtroppo, il diverso va ancora troppo poco di moda, si viene giudicati fin da bambini per i proprio gusti, sessuali e non, per la propria religione, per il colore della pelle e per come ci si veste. Lo sport dovrebbe essere esempio di tolleranza perchè su qualunque campo si disputi un incontro, gli avversari si misurano con le proprie capacità, non secondo il colore della pelle o qualsiasi altro gusto personale.
“La tolleranza è il biglietto da visita con cui gli stati occidentali si presentano agli importanti incontri internazionali per discutere non si capisce mai di cosa. Tollerare significa accettare che ognuno possa pensare ed agire in base a ciò che è e alla propria coscienza: esempi lampanti di mancata tolleranza li possiamo riscontrare nelle disastrose dittature del Novecento, anche se in tali casi parlare di razzismo sembra estremamente riduttivo. Non lo è, invece, se si considera il tentativo di una categoria umana di soverchiarne un’altra: puntare il dito contro neri, gay e donne è razzismo, prendersela con il compagno di classe secchione e mingherlino è bullismo, ricorrere a improbabili teorie scientifiche che provano la superiorità genetica del maschio bianco caucasico è stupidità, fonte di tutti i guai.”