Muhammad Ali è morto. Il sogno perverso di quasi tutti i giornalisti o pseudo tali di mezzo mondo si è avverato. A turno, dal giornalista più quotato a quello nostrano che per due lire si diletta ad imbrattare le pagine dei vari Corriere dello Sport e Gazzetta, si fa l’elenco delle gesta del campione e come sempre succede lo si cita a sproposito per qualche like su Facebook, si montano in fretta e furia servizi che ne ritraggono il mito con tanto di musichetta strappalacrime per qualche brivido, per elemosinare una parvenza di emozione, si prendono per veritiere ancora, dopo più di trent’anni, dichiarazioni che non furono mai farina del sacco di Ali ma piuttosto dell’imam che lo convertì all’Islam. Una su tutte la famosissima: “Non ho mai litigato con questi Vietcong. I veri nemici della mia gente sono qui”.
Fiumi e fiumi di inchiostro, migliaia di inutili saluti e convenevoli. Inutile dire che pochi, pochissimi, in Italia si sono mai presi la briga di ascoltare le lunghe interviste rilasciate da Ali nel corso degli anni Settanta alla BBC da quel Sir Michael Parkinson, classe 1935, vivo e vegeto, conduttore eccelso del Parkinson Show, definito dal The Guardian uno dei talk show migliori di sempre. Le lunghe arringhe sulla cultura nera, sull’Islam, su Allah, sul ruolo della donna, sulla necessità di stare ognuno al proprio posto, “ogni razza con la propria razza” diceva nel salotto di Parkinson, conduttore arguto, ironico, uno dei pochi all’epoca a tenergli testa. Al di là delle idee, discutibili, esagerate, espresse a muso duro, con la paura negli occhi e la sicurezza di un ragazzino di strada, sempre sulla difensiva, Alì esibiva la sua bellissima, infantile e tenera ignoranza come fosse una poesia. Era uno spettacolo.
Ma cosa rimane, quindi, di Muhammad Ali? Niente, se non la boxe, se non quei momenti in televisione dove scherniva gli avversari, il pubblico, dove si agitava, sbraitava e sorrideva come un bambino.
Come quando irrise in tv Kareem Abdul Jabbar danzandogli furiosamente sotto il naso garantendogli di poterlo mettere al tappeto. Scherzava, o forse no. Come quando andò sotto l’hotel del suo amico-nemico Joe Frazier con una pistola giocattolo per spaventarlo prima del loro terzo incontro. Come quando, in diretta televisiva, provocò sempre il solito Frazier fino a farlo esplodere di rabbia. “Sit down, Joe”, gli disse Alì con tono amichevole prima che i due venissero alle mani e finissero per terra, come due fratelli che litigano. Ah, quel Frazier che campione del mondo in una limousine a New York incontrò un Alì squattrinato e lo rimpinzò con più di qualche banconota da 100 dollari. Quel Frazier che fece di tutto per ridare ad Alì la sua licenza da pugile. Interventi pubblici, telefonate ed incontri con governatori vari. Ci riuscì.
Ali, sempre scambiato per qualcun altro dai media, dalle orde di appassionati, sempre messo sul piedistallo per meriti politici (?) o minori, sempre raccontato a metà. Non fu un santo, non combattè i poteri forti, non fu un’icona di nessuna lotta politica. Alì lottò per le sue idee e per il suo egocentrismo. Si sentì sempre solo e lo era. Non cercava il consenso, il popolo. Parlava e sembrava piacergli il suono della sua voce. Voleva distanziarsi, essere il prodotto creato da se stesso, essere controverso e a più riprese usò la religione per elevarsi prima di svestire i panni dell’estremista. Non si può omaggiare chi fece dell’ironia un arma brutale, che lo rese di ghiaccio, che gli fece dono di una lingua lunghissima, che gli fece dire, predire e fare l’impossibile. Insultò tutto e tutti, con educazione. Distrusse avversari e carriere con la sola forza delle parole. Amò tanto, in silenzio, con la sua faccia da schiaffi.
Non si può omaggiare chi credette in se stesso in modo così assoluto. Ali fu estremo, come estremi sono i bambini, furbo, vendicativo, arrogante ed imprudente. Un pezzo di pane. Non lo si può ridurre alla stupidissima propaganda del più debole che lotta contro i cattivi del mondo. Proprio no. Non lo si può piegare alle proprie emozioni o ai propri ideali. Alì era di una categoria tutta sua. Non ne parliamo più.