Il mondo del tennis piange Juan Aguilera, scomparso a 63 anni in un ospedale di Barcellona dopo una lunga malattia. Tre giorni prima della sua morte aveva festeggiato il compleanno, ricevendo l’ultima telefonata da un caro amico, Mats Wilander, che gli ha regalato un piccolo sorriso nel suo momento più difficile. Aguilera è stato uno dei grandi talenti del tennis spagnolo degli anni ’80 e ’90, capace di raggiungere il settimo posto del ranking mondiale e di conquistare cinque titoli ATP, con una carriera che ha avuto il suo picco nel 1990, quando trionfò ad Amburgo in una finale entrata nella storia.
Un talento sulla terra battuta
Nato a Barcellona nel 1962, Aguilera si avvicinò al tennis fin da bambino grazie alla sua madrina, insegnante in un club locale. Dopo essersi laureato campione junior di Spagna nel 1980, passò al professionismo nel 1981. Il primo grande successo arrivò nel 1984 con la vittoria nei tornei di Aix-en-Provence e Amburgo, dove sconfisse leggende come Yannick Noah e Guillermo Vilas prima di avere la meglio in una finale epica su Henrik Sundstrom. Quell’anno raggiunse il best ranking della carriera, arrivando numero 7 del mondo.
Ma il vero capolavoro arrivò nel 1990, quando tornò a imporsi sulla terra rossa di Amburgo, questa volta dominando un tabellone impressionante. In una sola settimana eliminò campioni del calibro di Michael Chang, Jim Courier e Guy Forget, prima di affrontare in finale un certo Boris Becker, allora numero 3 del mondo. Aguilera giocò la partita della vita, imponendosi con un clamoroso 6-1, 6-0, 7-6, lasciando il pubblico tedesco sotto shock e costringendo un Becker impotente a cedere sotto i colpi chirurgici del suo iconico rovescio in back.
Il maestro del rovescio tagliato
Lo stile di gioco di Aguilera era inconfondibile: un tennis basato su variazioni di ritmo, smorzate e traiettorie velenose, reso ancora più letale dal suo rovescio in back, un colpo che gli avversari faticavano a gestire, soprattutto sulla terra battuta. Non era un giocatore di potenza, ma di intelligenza e precisione, capace di spezzare il ritmo degli scambi con tagli profondi e colpi piazzati con maestria. “Oggi è quasi impossibile giocare un punto intero col rovescio in back”, rifletteva in un’intervista, ricordando quanto fosse efficace ai suoi tempi: “Rispondevo con un back bloccato e la palla finiva tra i piedi di Becker”.
Nonostante il talento cristallino, la sua carriera fu spesso segnata da problemi fisici. Il suo fisico fragile lo costrinse a frequenti stop, impedendogli di avere la continuità necessaria per competere ai massimi livelli per un lungo periodo. Anche al Roland Garros, il torneo più adatto alle sue caratteristiche, non riuscì mai ad andare oltre gli ottavi di finale.
L’ultimo acuto e l’addio al tennis
L’ultimo lampo della sua carriera arrivò a Palermo nel 1990, quando raggiunse la sua ultima finale ATP prima di arrendersi all’argentino Franco Davín. Chiuse quella stagione al 19° posto del ranking, stesso piazzamento del 1984, ma l’anno successivo non riuscì a ripetersi. Nell’ottobre del 1991, decise di ritirarsi, lasciando il circuito con la consapevolezza di aver dato tutto.
Fu un pioniere del tennis spagnolo, aprendo la strada alla generazione d’oro che avrebbe poi dominato il tennis mondiale. Il suo nome resterà legato per sempre a quella straordinaria settimana di Amburgo ’90, quando sconfisse alcuni dei migliori giocatori dell’epoca e, con il suo rovescio tagliato, mise in ginocchio Boris Becker.
Il tennis perde un campione silenzioso, mai sopra le righe, ma dotato di un talento unico. E chissà quante volte, fino agli ultimi giorni, avrà rivisto quella finale memorabile. “La verità è che mi impressiona ogni volta”, confessava. E impressionerà per sempre anche chiunque ami il bel tennis.
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