L’ex tennista italiano Davide Sanguinetti racconta in un’intervista esclusiva al media spagnolo Puntodebreak.com, il suo nuovo ruolo da allenatore e ripercorre con lucidità una carriera fatta di intuizioni geniali, battaglie fisiche e incontri con i più grandi del tennis.
A più di vent’anni dal suo ritiro, Davide Sanguinetti resta una figura autentica e rispettata nel mondo del tennis. Con uno stile sobrio ma appassionato, oggi allena Elena Rybakina, una delle protagoniste del circuito WTA. “È una giocatrice perfetta, ha tutti i colpi: serve solo un po’ più di fiducia”, afferma con convinzione. Il progetto con la kazaka è iniziato a febbraio e, nonostante l’eliminazione prematura al Mutua Madrid Open, il tecnico toscano non perde l’entusiasmo.
Sanguinetti crede che il suo contributo possa fare la differenza soprattutto sul piano mentale e tattico. “Cerco di trasmetterle tranquillità. Deve capire che non ha sempre l’obbligo di vincere. Tecnicamente è già molto solida”. Secondo lui, il servizio della Rybakina è “uno dei migliori della WTA”, ma la vulnerabilità nei momenti di pressione – come un gioco con quattro doppi falli a Miami – è ancora un’area da perfezionare.
Pur non essendo la terra la superficie preferita di Elena, Sanguinetti ne riconosce il potenziale. “Ha vinto a Roma, ha fatto semifinali qui e due volte i quarti a Parigi”, ricorda, sottolineando come l’altitudine di Madrid possa persino aiutarla: “La palla corre di più, tutto è più rapido, e a lei piace”. L’ex tennista toscano, che prediligeva le superfici rapide, vede però in questo adattamento un segnale positivo del percorso della sua giocatrice.
Chi ricorda Davide Sanguinetti come tennista, sa che non era un nome da copertina, ma un talento sottovalutato capace di imprese notevoli. “Ho battuto tutti i numeri uno: Federer, Djokovic, Agassi, Sampras… mi è mancato solo Nadal”, racconta, con un misto di orgoglio e amarezza. La sua carriera è stata segnata da un fisico non sempre all’altezza delle ambizioni: cinque interventi chirurgici al ginocchio sinistro, culminati in una protesi totale che lo accompagna ancora oggi.
“Il professionismo è letale. Il tennis fa bene al corpo, ma non a questi livelli”, dice con franchezza. Un’affermazione che pesa, considerando che oggi riesce ancora a giocare, ma solo con estrema cautela. Il suo ritiro, arrivato per necessità più che per scelta, ha segnato la fine di un percorso che, nelle sue parole, “poteva andare molto meglio, se avessi avuto più forza mentale”.
A differenza di molti colleghi, Sanguinetti ha intrapreso una via atipica, frequentando l’università negli Stati Uniti prima di lanciarsi nel professionismo. Un ritardo che, secondo lui, ha inciso: “Forse non è andata così male, ma avrei potuto fare di più”. Nonostante tutto, ha conquistato due titoli ATP – battendo nomi come Federer a Milano e Roddick a Delray Beach nel 2002 – e oggi si dice felice di poter raccontare queste vittorie ai figli.
Dopo il ritiro, ha vissuto un anno lontano dal tennis, prima di ritrovare la voglia di trasmettere esperienza. Prima con Brandon Nakashima, che ha portato fino alla top30, e ora con Rybakina, continua a cercare progetti stimolanti. Il sogno? Allenare un giovane talento italiano: “Prima di ritirarmi voglio allenare un ragazzo italiano. Magari Federico Cinà, sarà fortissimo”.
Sanguinetti osserva con entusiasmo il momento d’oro del tennis italiano, trainato da campioni come Jannik Sinner. “Prima c’era il modello spagnolo, ora tutti guardano all’Italia. Serve sempre un leader, come fu Nadal o Moyá per la Spagna”. Ai suoi tempi, la situazione era ben diversa: “Solo le famiglie ci sostenevano, niente aiuti. Ora è cambiato tutto”. Dai pionieri come Gaudenzi e Furlan, fino al successo sistemico di oggi, Sanguinetti sente di aver fatto parte di una lunga marcia di crescita.
Guardando al panorama attuale, l’ex numero uno italiano non ha dubbi su chi rappresenterà il futuro del tennis mondiale. Si dice colpito da Sinner e Alcaraz, ma scommette anche su nomi come Jack Draper e Lorenzo Musetti, quest’ultimo “destinato a chiudere l’anno tra i primi otto”. L’intuizione non gli manca: già nel 1999, dopo un match di Coppa Davis, aveva predetto il destino di Federer: “Dissi al mio coach: ‘Questo ragazzo diventerà numero uno al mondo’”. Aveva ragione.
E oggi, più che mai, quel fiuto può fare la differenza per chi ha ancora voglia di lasciare un segno, anche da bordo campo.
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