Ci sono avvenimenti che condizionano tutti gli altri. Ecco perché, se chiedete a Cliff Richey cosa ricorda degli US Open 1977, i suoi ultimi US Open, lui vi risponderà che “era da poco morto Elvis Presley”.
Già, il re del rock si era spento nel suo stesso bagno, stroncato da un’overdose di farmaci, appena 15 giorni prima e lo smarrimento negli Stati Uniti così come nel mondo era ancora vivido. Tangibile. Basta pensare che ancora oggi molti rifiutano di credere che questo sia successo veramente. Era il 16 agosto e faceva un caldo afoso insopportabile a Graceland, nella villa di Presley, quando il cantante spirò.
Normale che, solo due settimane più tardi, l’episodio fosse al centro dell’interesse e inquinasse i pensieri di chi si apprestava a fare tutt’altro, come può essere giocare a tennis. Tuttavia, sia pur interessando un pubblico più di nicchia, anche lo sport della racchetta stava celebrando un addio. Il 31 agosto iniziavano infatti gli ultimi US Open al West Side Tennis Club di Forest Hills, che lì avevano trovato stabilmente dimora fin dal 1915.
Tre anni prima gli organizzatori del major statunitense avevano provato a cambiare, sostituendo l’erba malconcia dei campi (soprattutto del centrale, quello con la celebre Club House sullo sfondo) con la terra grigio-verde, o Har-Tru che dir si voglia. Ma in fondo non era solo questione di superficie, bensì anche di spazi vitali e la costruzione del National Tennis Center a pochi chilometri da lì aveva decretato di fatto il malinconico addio di Forest Hills.
Per l’ultimo giro di giostra, però, l’imprevedibilità del destino aveva confezionato una festa speciale che, pur condizionata dalla tristezza che serpeggiava nell’intera nazione per la prematura scomparsa di uno dei suoi simboli, aveva in serbo più di una sorpresa.
La prima di queste fu la partecipazione di Renee Richards (nella foto) al singolare e doppio femminile, resa possibile da una sentenza della Corte Suprema di New York. Tutto questo perché la “signora” Richards in realtà era nata Richard Raskind e quel torneo l’aveva già giocato da amatore nel 1960 con assai poca fortuna; venne infatti sorteggiato al debutto contro la testa di serie n°1 Neale Fraser, che avrebbe poi vinto il titolo, e rimediò appena due giochi. Nel singolare maschile, però.
Dunque, Renee fu la prima transessuale del tennis e ottenne il permesso di giocare quegli US Open ma aveva appena compiuto 43 anni e, nonostante tutto, c’erano diverse femmine nate tali in grado di batterla. Ad esempio Virginia Wade – altro sorteggio a dir poco infelice – che le inflisse un netto 6-1, 6-4. In doppio però le cose andarono diversamente. In compagnia con Betty Ann Stuart, la Richards conquistò la finale dove a batterle furono Navratilova e Stove. Due anni dopo, con Nastase, avrebbe conquistato anche la semifinale nel misto.
Quelli furono anche i primi US Open di John McEnroe, che tanto per non smentirsi fin dai primordi si prese un warning nel match d’esordio e il suo avversario, il connazionale Eliot Teltscher, per solidarietà gli regalò il punto successivo. Il geniaccio nato a Wiesbaden vinse tre incontri prima di perdere da un altro mancino, lo spagnolo Manuel Orantes.
E mancini furono pure i finalisti, con Guillermo Vilas che venne portato in trionfo dai suoi tifosi qualche attimo dopo aver battuto Connors 6-0 al quarto set. In precedenza, aveva fatto parlare molto di sé l’americano Mike Fishbach, capace di superare due turni (battendo tra l’altro il n°13 Stan Smith) impiegando una racchetta con la doppia incordatura che verrà dichiarata fuorilegge solo qualche settimana più tardi dopo che Ilie Nastase interruppe ad Aix-en-Provence la striscia vincente dello stesso Vilas.
Insomma, frammenti qua e là – come la follia del 33enne James Reilly che si mise a sparare con una calibro 38 qualche minuto prima che McEnroe e Dibbs iniziassero la loro sfida di terzo turno – che resero quell’ultimo US Open a Forest Hills indimenticabile. Il primo senza Elvis Presley.