La parabola di Marco Cecchinato: “Dopo Djokovic, nulla è stato più lo stesso”

Una semifinale per cambiare tutto

Nel 2018, al Roland Garros, Marco Cecchinato ha scritto una delle pagine più sorprendenti e ispiranti del tennis italiano. Nessuno se lo aspettava, nemmeno lui. Da numero 72 del mondo, ha infranto ogni pronostico spingendosi fino alla semifinale del secondo Slam stagionale, battendo nei quarti nientemeno che Novak Djokovic. Un’impresa che, ancora oggi, risuona come una pietra miliare per il movimento tennistico azzurro.

Quella vittoria contro il fuoriclasse serbo non fu solo un capolavoro tecnico ed emotivo, ma anche uno spartiacque psicologico. “Fu una svolta per il tennis italiano: me lo riconoscono tanti giocatori”, ha raccontato Cecchinato in una recente intervista alla Gazzetta dello Sport. Il match si concluse in quattro set, con un tie-break finale che ancora oggi fa venire i brividi: “Se fossi andato al quinto, avrei perso. Diedi davvero tutto me stesso”. E quella sconfitta, curiosamente, segnò anche una rinascita per Djokovic, che da lì in poi vinse tre Slam consecutivi.

Il sogno realizzato, ma anche il prezzo da pagare

Cecchinato, con quella semifinale, coronava i suoi due sogni da bambino: entrare nei top 100 e diventare il numero uno d’Italia. “Mi sono tolto soddisfazioni incredibili”, ha detto, ripensando al momento più alto della sua carriera. Eppure, il Ceck migliore, a suo dire, arrivò un anno dopo: a Buenos Aires nel 2019, quando conquistò il titolo ATP battendo Diego Schwartzman in finale. “Giocavo molto bene e mi esaltai in trasferta: insulti dal primo punto, calore, situazioni che mi caricavano”.

Ma il successo, si sa, porta con sé anche aspettative e pressioni. E lì, qualcosa si ruppe. Cecchinato ha analizzato con grande lucidità ciò che non ha funzionato: “Avrei avuto bisogno di aggiungere un super coach al mio team nel periodo migliore”. La collaborazione con Simone Vagnozzi e Ubaldo Ferrara fu positiva, ma mancava una guida più esperta, capace di cogliere e correggere le sue fragilità. “La pressione mi ha sovrastato e poi io sono un po’ pigro, a volte rallentavo in allenamento mentre avrei avuto bisogno di spingere di più. Era un momento decisivo”.

In particolare, dopo la clamorosa sconfitta contro Mahut al Roland Garros 2019 — da due set a zero di vantaggio — Cecchinato entrò in un vortice negativo: “Mi sono affidato a Uros Vico, coach bravissimo e persona splendida. Ma non c’ero più: ero frastornato, troppo nervoso. Persi partite quasi vinte: ancora non capisco come”.

Tra Rwanda e il futuro: l’ultima sfida

Oggi, Cecchinato si trova ben lontano dai riflettori dei grandi tornei. Ha giocato persino in Rwanda, cercando una nuova rinascita a 31 anni. L’obiettivo? Tornare a disputare le qualificazioni Slam e, se non dovesse riuscirci, chiudere con serenità. “Se andrà male, a dicembre smetterò con la consapevolezza di aver fatto più di quello che avrei immaginato”.

Resta, comunque, la consapevolezza di essere stato un simbolo. Non solo per ciò che ha fatto in campo, ma per come ha vissuto la sua carriera, senza filtri, con sincerità disarmante: “Come verrò ricordato? Come il tennista che con quella semifinale a Parigi lanciò un segnale importante. E come un uomo vero, che ha commesso degli errori, li ha pagati, ma non ha mai finto ed è sempre stato fedele a se stesso”.

Cecchinato non è stato soltanto il ragazzo che ha sconfitto Djokovic. È stato — ed è — il manifesto di una generazione che ha capito che anche l’impossibile può diventare realtà, almeno una volta. E quella volta, basta per cambiare tutto.

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