L’ AIUTO CHE VIENE DALLA SCIENZA- Psicologo sportivo, mental coach e tennisti. Un connubio destinato a funzionare, quasi sempre, almeno stando alle parole di alcuni Top Players. “Sono sempre stata una buona giocatrice, avevo un buon dritto e rovescio e abbiamo sempre lavorato sul servizio, ma diventavo molto negativa durante le partite e il lavoro mentale mi aiuta a farmi rimanere nel match quando non mi sento bene. Sono cambiate tante cose. Ha aiutato molto il mio gioco” . Queste le parole di Dominika Cibulkova che, in soli otto mesi è balzata dalla posizione numero 66 del ranking a quella di numero 8. Ancora più chiare le dichiarazioni di Carla Suarez-Navarro che , dopo Wimbledon 2015, aveva vissuto un momento molto difficile. “Ho iniziato a pensarci l´anno scorso. Non penso che avremmo potuto trovare una soluzione coi miei allenatori, perché mi allenavo e giocavo bene, quindi era qualcosa che stava nella testa. Pensavo di assumere uno psicologo tanto tempo fa ma mi dicevo ´loro non capiscono alcune situazioni´. Ma non c´è nulla da perdere nell´assumerne uno.” Anche per lei il ricorso allo psicologo ha funzionato. Tuttavia, non sempre l’intervento dello psicologo ha dato i frutti sperati. L’australiana Sam Stosur, che per anni ha fatto ricorso all’aiuto terapeutico dello psicologo, non sembra aver risolto i suoi problemi di fragilità mentale. Interventi sì, ma non taumaturgici.
UNA SINERGIA IMPORTANTE- E’ bene, però, chiarire subito che lo psicologo sportivo e il mental coach sono due figure che operano in ambiti vicini ma totalmente diversi. La psicologia sportiva è fondata su una preparazione specifica che si concentra e studia il comportamento degli individui, i loro processi mentali e la parte interiore di natura conscia ed inconscia. Quindi, nulla a che vedere con il mental coaching che invece non opera in ambiente clinico o psicologico, bensì lavora con atleti che desiderano massimizzare i loro risultati sportivi. Il mental coach fa leva sull’allenamento e lo sviluppo della forza caratteriale. Il primo analizza, diagnostica e cura; il secondo dà un sostegno speciale per migliorare il comportamento in gara, ponendo costantemente l’attenzione sul miglioramento delle performance e contribuire così a portare l’atleta ad esprimere il suo massimo potenziale. Due professionalità che possono tuttavia integrarsi per dare eccellenti risultati. Ciononostante, nessuna terapia e nessun allenamento daranno frutti se non supportati da un qualche fattore esterno che possa fungere da “switch” , ovvero da accensione per far sì che il tennista possa pensare al proprio gioco in maniera positiva. Sia che si tratti di terapia, che di allenamento mentale, l’elemento “fiducia” svolge un ruolo fondamentale, e lo svolge sin da giovanissimi. L’uso del mental-coach è ormai diffuso anche tra i giovanissimi agonisti e anche nel tennis juniores vi si fa ricorso per ottimizzare le prestazioni. Trattandosi di ragazzi la cautela è però d’obbligo. Saper dosare l’intervento del mental coach, legandolo alla progressiva crescita e maturazione personale, può essere indispensabile per scongiurare il rischio di trovarsi dinanzi al classico burn-out da agonismo esasperato. Un male assai diffuso tra i giovanissimi agonisti. Tuttavia, l’aiuto dello psicologo sportivo, ove necessario, e il supporto del mental-coach sono ormai tra mezzi più diffusi per superare quelli che Kevin Anderson ha definito come i problemi che ” tutti i tennisti professionisti devono superare, ovvero i dubbi a livello mentale . Dubbi del tipo ‘riuscirò a battere questo giocatore?’, ”non mi sento bene al servizio oggi’ o ‘sembra che faccia fatica in queste condizioni. I professionisti hanno dedicato la loro vita a fronteggiare queste difficoltà”. Giuste le parole del sudafricano per ribadire che, dopo tutto, l’essenza del tennis è, come sempre, nella mente.