Pedro Martínez Portero ha vissuto uno dei suoi anni più speciali sul circuito nel 2020.
Il tennista di Valencia inizia a raccogliere i frutti del suo lavoro, dopo diversi anni di lotta nel Challenger Circuit per entrare nella top-100, e affrontare il 2021 con la voglia di dare una svolta positiva alla sua carriera fra i professionisti.
Il classe 97 si è raccontato a “Behind the Racquet”: “La parte più difficile della mia carriera è stata durante la mia giovinezza. A 17 anni ho subito un intervento chirurgico al ginocchio, e i medici hanno sottovalutato i tempi di recupero. Non ho giocato per nove mesi. Ero giovane, ed era frustrante. Ho visto i miei compagni di squadra andare agli Junior Grand Slam mentre io rimanevo fermo al palo. Sarei voluto tornare a casa, ma dovevo restare nella Federazione per andare a scuola. Non mi sentivo bene. Non avevo alcuna motivazione per studiare, quindi guardavo la TV tutta la notte, fino alle 3 o anche alle 4 del mattino”.
E ha poi aggiunto: “Ho sempre avuto tutto sommato una buona classifica, ma si diceva che non sarei arrivato al circuito ATP perché avevo un brutto carattere. Nel 2018 ho pensato seriamente di lasciare il tennis. Ho giocato al Roland Garros, ma non mi sentivo bene con me stesso. Ho perso al primo turno di qualificazione. Ho incolpato i miei allenatori. Quello è stato il punto più basso della mia carriera”.
A quel punto, qualcosa deve essere scattato nella testa di Portero: “Mi sono detto che dovevo cambiare perché non potevo andare avanti così; volevo raggiungere il mio livello più alto”.
Le persone più vicine a lui soffrivano questa situazione particolare, ma non erano di gran conforto: “La gente parlava di me dicendo che ero troppo pazzo; dicevano che non sarei mai potuto essere un professionista. Ho preferito allontanarmi, così mi sono trasferito a Barcellona”.
La svolta?
Un mental coach.
“Durante questo periodo, ho vinto il mio primo titolo Challenger a Bastad, ma in campo non stavo bene, soffrivo, e soprattutto non riuscivo a controllare le mie emozioni. Era difficile immaginare quella vita per i successivi 15 anni. Ho iniziato allora a lavorare con un mental coach. Mi sono riconnesso con me stesso. Nei sei mesi successivi mi sono evoluto come giocatore. Mi sono assunto la responsabilità delle mie decisioni dentro e fuori dal campo. Ho creduto nei miei allenatori e la mia classifica è migliorata di 80 posizioni”.