La russa Valeriya Solovyeva, ex numero 163 del mondo, ha raccontato la sua storia a Behind The Racquet, svelando aneddoti sulla sua infanzia difficile ed approfondendo il suo rapporto conflittuale con il tennis, che ha caratterizzato buona parte dei suoi 27 anni di vita.
“Quando ero giovane, ero l’esempio che gli altri genitori cercavano di trasmettere ai loro figli. Dicevano: ‘Guarda il suo gioco di gambe, copia la sua attitudine, lei è la migliore’ e tanto altro ancora. Quando avevo 13 anni, firmai un contratto con Nike e Babolat e allo stesso tempo con un’agenzia di management. Tutto ciò dopo aver vinto l’Orange Bowl. Per il momento, le cose stavano andando molto bene ed il mio futuro sembrava roseo, ma ad un certo punto tutto precipitò. Sentivo molta pressione e responsabilità e non riuscivo a convivere con le alte aspettative nei miei confronti. D’altronde avevo solo 14 anni. Ero solo una ragazza che faceva ciò che le veniva chiesto: vincere. Quando ti senti ripetere ogni giorno che l’unica cosa che devi fare è vincere, ti dimentichi veramente di giocare a tennis e soprattutto di divertirti. Ogni volta che mettevo piede su un campo da tennis mi sentivo molto stressata. Negli anni seguenti, entravo in campo con l’obbligo di vincere e mi concentravo esclusivamente sui risultati, invece di provare a migliorare il mio gioco“.
“Persi fiducia, tutte miglioravano tranne me. Sentivo di non essere all’altezza e che in me ci fosse qualcosa di sbagliato. Il mio management era preoccupato e non era contento delle mie prestazioni, continuava a ripetermi che ragazze più giovani di me stavano ottenendo risultati migliori. Quando perdevo le partite, mio padre era sempre molto arrabbiato. Avevo bisogno di mia madre, ma lei era in Russia mentre io e mio padre eravamo in Florida, ovviamente senza la tecnologia che c’è al giorno d’oggi. Non avevo via di scampo da quel mondo. La mia mentalità era picchiare duro e da allora ho pagato per questo“.
“Ho iniziato ad apprezzare il tennis quando sono cresciuta, ma non ricordo un singolo minuto in cui sia successo durante la mia gioventù. Era una tortura e non una mia scelta. Facevo ciò che mi veniva ordinato così non avrebbero abusato fisicamente di me. Volevo andare a scuola ed avere amici come una ragazza normale. In fin dei conti, è tutto ciò che conta. Siamo abituati a vedere solo il 10% di coloro che ce la fanno e conducono una bella vita al di fuori dello sport, ma per quanto riguarda il resto? Nessuno sa cosa accade al restante 90% delle ragazze. Non sono esattamente nella posizione di giudicare cosa sia giusto o sbagliato, ma lasciate che i vostri figli facciano ciò che davvero gli piace. Spingere le persone oltre i loro limiti non paga mai a lungo termine. Presto o tardi arriverà una triste e orribile fine. La verità è che sono i bambini a dover convivere con questo trauma, e non i genitori, gli allenatori o gli agenti. I vostri bambini hanno bisogno della vostra attenzione e che vi prendiate cura di loro. Dopo tanti anni, io ho perdonato mio padre. E’ stata una mia scelta, ero stanca di provare rabbia. Amo la mia famiglia e l’amerò per sempre, ma molte ragazze che conosco in questa stessa situazione, non hanno più parlato ai loro genitori. Nel complesso ho ottenuto buoni risultati, ma la mia vita sarebbe stata di gran lunga migliore se fossi stata felice fuori dal campo e di conseguenza mi fossi divertita quando giocavo. Quando ero giovane, ciò non potevo saperlo“.
“Un infortunio al quale non trovavo rimedio ha messo fine alla mia carriera da giocatrice e adesso sono un’allenatrice. Il mio obiettivo principale in qualità di coach è dare ai miei giocatori sostegno, prendermi cura di loro e far sì che siano circondati dalle persone giuste. Provo a trasmettere loro energia positiva e, ovviamente, la mia conoscenza. Una carriera nel mondo tennis è un processo che dura molto tempo, perciò è meglio affrontarla con il sorriso e cercare di divertirsi, altrimenti non andrà mai a finire come si spera“.