Storia dei Campionati d’Australia

Racconto da Down Under dove nacque la leggenda del magnifico tennis dell’altro mondo

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I problematici inizi

Erano ormai passati rispettivamente 28 e 24 anni dalla nascita di Wimbledon e dei Campionati Statunitensi e con malcelata invidia i sempre più numerosi appassionati di lawn tennis residenti in Australia seguivano le gesta di campioni stranieri in terre lontane. Quindi, mossi da intraprendenza di spirito e naturale istinto all’emulazione, si accinsero anche loro a gettare le fondamenta di quella che sarebbe diventata la terza prova del Grand Slam in ordine di anzianità. In fondo, si dissero con orgoglio patriottico, cosa ci manca per riuscire altrettanto bene dei nostri “protettori” inglesi e dei bizzarri americani ? Siamo forse meno capaci o dotati di brillante d’iniziativa ? Siamo un popolo che discende da galeotti, ma non per questo dobbiamo essere considerati una buia e sperduta provincia abitata solo da zotici allevatori ! Non siamo figli di un Dio minore tra gli onorevoli membri dell’Impero Britannico e perciò avremo anche noi il nostro torneo !

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In alto Rodney Heat, in basso Anthony Wilding

E così, nel 1905, nacquero gli Australiasian Championships, rigorosamente su erba, che divennero semplicemente Australian Championships nel 1927 con la definitiva separazione sportiva tra Australiani e cugini Neozelandesi. La prima storica edizione si svolse a Melbourne nel complesso del Warehouseman’s Cricket Ground, il vincitore fu Rodney Wilfred Heat, naturalmente aussie, che superò il connazionale Arthur Curtis in quelli che si presume siano stati quattro combattutissimi set. Heat si ripeté anche cinque anni dopo nel 1910; dopo di che decise di aver inciso fin troppo il suo nome nella storia del tennis, si arruolò nell’aviazione di Sua Maestà, raggiunse il Vecchio Continente e scampò miracolosamente ad un incidente aereo causato da una violenta tempesta di neve durante uno dei suoi innumerevoli e perigliosi voli sopra la Manica.

La seconda edizione del 1906 fu spostata cervelloticamente in Nuova Zelanda, nella cittadina di Cristchurch, e si disputò in un club minuscolo che aveva capacità talmente modeste da poter ospitare una competizione di soli dieci tennisti di cui due coraggiosi australiani che avevano osato intraprendere la traversata marittima verso quelle lande desolate. Si impose Anthony Wilding, leggendario kiwi neozelandese, che doppiò il titolo nel 1909 e dominò i ben più rinomati Championships di Wimbledon negli anni Dieci del ventesimo secolo conseguendo ben quattro trofei consecutivi fintanto che la Grande Guerra prima gli stroncò la carriera e poi gli prese la vita sul campo di battaglia. Tra i pionieri del tennis australiano va ricordato senz’altro il leggendario Norman Brookes che conquistò il torneo nel 1911 e fu in assoluto il primo aussie ad imporsi sui sacri prati londinesi.

La distanza dal resto del mondo

Il primo spinoso problema che il torneo dovette affrontare per darsi una dimensione autorevole fu la scelta di una sede fissa che potesse ospitare l’evento in pianta stabile. Infatti, nei primi decenni di vita, la competizione fu spostata per problemi di limitato budget in varie città: Melbourne, Sidney, Adelaide, Brisbane in Australia e addirittura Hostings e, come già detto, Cristchurch in Nuova Zelanda ebbero l’onore e l’onere di organizzare la manifestazione. Nel 1909 (e poi anche in altre due occasioni) si giunse persino a scegliere Perth come sede, una  città che ancora oggi, trovandosi nell’estremo sud ovest dell’Australia, è una delle località più isolate del mondo trovandosi a 3.000 chilometri di distanza dagli stati di Victoria e del Nuovo Galles del Sud molto più densamente popolati. Si può quindi facilmente immaginare quale sia stato in quel caso il campo di partecipazione…

Il paese, giovane e intraprendente, cresceva a vista d’occhio, ma la vastità della nazione collegata da una rete stradale e ferroviaria tutt’altro che sviluppata era un ostacolo insuperabile per gli stessi australiani che volevano partecipare al torneo ed anche per questo si optò per una rotazione di città così da non scontentare nessuno dei tennisti autoctoni . Soltanto nel 1972, all’inizio dell’era Open, si decise come sede fissa Melbourne nello storico Kooyong Club.

Quando l’evento divenne a tutti gli effetti internazionale furono comunque ben poche le grandi stelle americane ed europee che ardirono intraprendere il viaggio in piroscafo della durata variabile di trenta o di quarantacinque giorni, a seconda del porto di partenza, per partecipare ad un torneo snobbato perché ritenuto inutile e di basso lignaggio.

Il calendario e il clima erano altri due macigni sulle ambizioni di grandezza del torneo: l’estate alla rovescia australe, che inizia in dicembre proprio durante la competizione, non propiziava una massiccia emigrazione di tennisti. Le temperature torride e l’umidità insopportabile erano altre buone e sensate ragioni per non decidersi mai ad affrontare la trasferta in quel lontano paese e davano il colpo di grazia alle possibilità di crescita e di pari dignità con gli altri grandi eventi tennistici ormai ben più affermati.

Per questi motivi più che comprensibili gente del calibro dei fratelli britannici Doherty, l’americano Larned, plurivincitore a casa sua, l’immortale Tilden, tre dei quattro moschettieri di Francia Lacoste, Cochet e Brugnon, non mise mai piede in Australia, ma l’elenco delle defezioni è purtroppo ben più numeroso.

Nei primi quarant’anni del torneo, fino quindi al secondo dopoguerra, si contarono appena otto successi non “australasiani” tra cui sicuramente i più autorevoli furono quelli di Jean Borotra nel 1928, Fred Perry nel 1934 e Donald Bugde nel 1938 in occasione del primo Grand Slam della storia del tennis.

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In alto James Anderson, in basso Gerald Patterson.

I primi campioni aussies

In quei primi anni si devono obbligatoriamente menzionare le vittorie di quelle che furono le prime grandi firme del tennis australiano: James Anderson fu uno degli innovatori del tennis perché colpiva la palla di dritto in top-spin e fece tripletta tra il 1922 e il 1925, la sua vittima preferita fu il possente Gerald Patterson, un battitore molto temibile per l’epoca, che dovette accontentarsi di un solo titolo nel 1927. Jack Crawford, sontuoso servitore e volleatore, superò pochi anni dopo il record del connazionale imponendosi in quattro delle sue sei finali consecutive, primato che resistette per 30 anni, tra il 1931 e il 1936. Crawford resta negli annali per il suo mancato Grand Slam del 1933 sfuggitogli beffardamente in quel di New York per un colpo di freddo, un attacco d’asma…e un bicchiere di whiskey. Vivian Mcgrath, colui che “inventò” il rovescio a due mani, vinse nel 1937; Jonh Bromwich, superbo doppista, rozzo a vedersi ma molto efficace, si impose nel 1939 e poi nel 1946, riuscendo tuttavia nell’impresa poco invidiabile di perdere altre cinque finali. Il minuto, ma talentuoso Adrian Quist, si portò anche lui a casa il titolo in tre occasioni (1936, 1940 e infine 1948 a dodici anni di distanza dal primo) e fu vincitore in doppio per la “miseria” di dieci volte con quindici finali consecutive disputate a cavallo della Seconda Guerra Mondiale.

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In alto Jack Crawford, al centro John Bromwich, in basso  Adrian Quist.

L’esplosione del tennis australiano: cause ed effetti

Con gli anni Cinquanta si entrò in un’epoca decisamente diversa; i viaggi in aereo iniziarono ad essere alla portata degli sportivi “ a tempo pieno” e l’Australia non era più così inaccessibile come in precedenza, il torneo cominciò ad essere timidamente frequentato da diversi stranieri, tuttavia gli australiani non solo continuarono a monopolizzare le vittorie, ma alzarono lo sguardo verso nuovi orizzonti lontani e instaurarono in maniera dirompente un dominio sul mondo del tennis mai più verificatosi di tale portata: fu un’ egemonia senza appello, inaugurata nell’immediato dopoguerra e protrattasi fino alla metà circa degli anni Settanta. Si poté ammirare una quantità tale di campioni e un ricambio generazionale infinito che lasciò senza fiato e impotenti le altre nazioni condannate a raccogliere i miseri resti che gli aussies avevano la bontà di concedere.

Fornisco un po’ di numeri per concretizzare meglio la dimensione del fenomeno: dal 1946 al 1976 gli australiani si imposero per 27 delle 31 edizioni del torneo e vinsero con ben 13 tennisti diversi. A livello slam, nello stesso periodo, i dati sono altrettanto impressionanti: 64 vittorie su 124 competizioni, più della metà, e il fiore all’occhiello furono i 17 trionfi in Coppa Davis che in quegli anni era incomparabilmente più importante, prestigiosa e ben frequentata che ai giorni nostri.

Come è stata possibile una simile lunga epopea per un paese con gravi problemi logistici e di comunicazione con il resto del mondo, in fin dei conti scarsamente popolato e che si era creato una tradizione tennistica tra mille difficoltà ?

Fu una serie di fattori fortunati e ben sfruttati a rendere possibile il miracolo: anche l’Australia concesse con lugubre dovizia il suo tributo di morti durante la barbara follia della guerra, ma la posizione geografica la salvaguardò dalle peggiori catastrofi, così il boom economico fu rapido ed arrivò prima che altrove perché le strutture produttive erano rimaste intatte. Il tennis si era imposto in popolarità ai livelli del cricket, del rugby e del football australiano ed anche nei piccoli paesi di provincia era facile trovare dei rettangoli di gioco, magari approssimati, ma frequentatissimi. La legge della domanda e dell’offerta fece il resto dato che la nazione era ricca di ragazzi dal naturale talento atletico e si creò un sistema meno oppressivo ed ipocrita di quello in vigore in Europa e negli Stati Uniti a proposito della rigida divisione tra dilettanti e professionisti. Infatti non solo si incoraggiava la creazione di posti di lavoro per i tennisti dilettanti, ma una sorta di sponsorizzazione “non esplicita” era permessa: sui giornali non si poteva scrivere che il tal campione aveva vinto con la tal racchetta, ma era concesso informare che la tal racchetta si era imposta nel torneo vinto dal tal campione.

“Non erano mai stati primi in niente, gli australiani, e d’improvviso battevano tutti, anche i giganti americani: se l’entusiasmo non sconfinò nello sciovinismo più becero lo si deve certo alla tradizionale cultura anglosassone e al sincero autentico amore per lo sport di quella gente ruvida, ma corretta” (cit. Clerici).

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Harry “Hop” Hopman, il grande coach.

E poi ci fu un uomo che fece la storia del tennis australiano: Harry “Hop” Hopman, colui al quale è dedicata la competizione di inizio anno a squadre miste che si disputa a Perth. Fu un buon giocatore, tutt’altro che eccelso, che vantava tre finali consecutive perse negli anni Trenta, ma come allenatore non ebbe rivali. Intuì per primo l’importanza della preparazione atletica da integrare con quella tattico-tecnica ed inventò il metodo dell’interval training, cioè le famose e classiche “ripetute” di gesti fondamentali; ai suoi ragazzi aveva istillato un fanatismo quasi devoto per l’allenamento in palestra, correvano per miglia e miglia, si dedicavano ai pesi e osservavano una sana e irreprensibile condotta di vita. Un sergente di ferro che forgiò una stirpe di eroi.

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In alto Frank Sedgman, in basso Ken Mc Gregor.

I talenti aussies non finiscono mai

Il capostipite di questa incredibile favola fu modellato dalle sue sapienti mani negli anni Quaranta: era Frank Sedgman, dotato di grande talento, però gracilino e privo di potenza. Hopman lo trasformò in un atleta eccezionale che serviva badilate, vinse nel 1949 e nel 1950, si impose in altri tre slam, una volta a Wimbledon e altre due a New York ed insieme a quell’altro fenomeno di Ken Mc Gregor, vincitore del torneo di singolare nel 1952 e gigante impossibile da passare su erba, formò una delle coppie di doppio più forti di sempre, l’unica, a tutt’oggi, ad essersi aggiudicata il Grand Slam nel 1951 e ad imporsi in sette prove consecutivamente. Per impedirgli il passaggio al professionismo ed averlo ancora tra i suoi per stravincere la Coppa Davis, Hopman organizzò una raccolta fondi per acquistare una stazione di rifornimento di carburante da intestare alla moglie di Frank e dargli la possibilità di restare “dilettante” ancora per un anno; questo per dire fino a che punto il grande coach ci tenesse a lui e controllasse capillarmente la vita dei suoi “soldatini ubbidienti”, sicuramente erano altri tempi…

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In alto Ken Rosewall, al centro Mervin Rose, in basso Lew Hoad.

Giunse poi il momento di chi viene considerato uno dei più grandi di sempre: Ken Rosewall vinse ben quattro volte. Da giovane dilettante nel 1953 contro l’ennesimo talento connazionale, Mervin Rose e nel 1955 sconfiggendo in finale il disperato “gemello” Lew Hoad. Entrambi, curiosamente, si rifecero l’anno successivo alle loro disfatte quasi che l’immenso Ken gli abbia dato il beneplacito di alzare la coppa al cielo nel 1954 e nel 1956 dopo essere stati sue vittime incolpevoli.

Da maturo professionista, “secoli dopo”, Rosewall riscrisse il suo nome nell’albo d’oro del torneo a dimostrazione di due fatti inoppugnabili: fu uno dei giocatori più longevi che si ricordi e seppe approfittare di quei confusi e tragicomici anni tra il 1968 e il 1972 in cui si tentava con regolamenti astrusi, che non è proprio il caso di riepilogare dettagliatamente, di traghettare il tennis verso la definitiva era Open. Basti dire che Rosewall apparteneva ad una associazione di giocatori a cui era permesso disputare il neonato Australian Open e naturalmente ne vinse due asfaltando in finale nel 1971 un degno compatriota come Malcolm Anderson e nel 1972 un futuro campione americano di nome Arthur Ashe .

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In alto Ashley Cooper, in basso Neal Fraser.

Sotto a chi tocca: la fucina di talenti del vecchio Hopman sfornò Ashley Cooper che nel 1957 sconfisse l’altrettanto grande Neal Fraser che si dovrà accontentare di tre finali perse nel torneo australe e nel 1958 superò il solito Anderson. In quell’anno Cooper fece tre quarti di slam fermandosi in semifinale a Parigi; appagato, convolò a nozze con Miss Australia Helen Wood e raggiungere il circo Kramer nel rutilante mondo del professionismo.

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In alto Roy Emerson, in basso Fred Stolle.

Proprio il passaggio al tennis remunerato legalmente dei migliori giocatori australiani negli anni Sessanta fece la fortuna di Roy Emerson, sicuramente molto meno talentuoso di tanti altri suoi connazionali. Il fatto di restare dilettante per gran parte della carriera gli permise di avere un curriculum gonfio di allori in modo del tutto non congruo con il suo reale valore, esempio lampante di come nel tennis i palmares siano taroccati ed è un compito improbo decidere anche chi sia stato il più vincente, figuriamoci il più forte di tutti i tempi. Ad ogni modo Emerson restò, prima dell’avvento di Sampras, il primatista di majors con dodici successi e spadroneggiò tra il 1961 e il 1967 vincendo sei finali su sette disputate, tra gli altri soccombettero contro di lui per un paio di volte a testa Ashe e Fred Stolle, l’australiano famoso per aver perso le prime cinque finali slam disputate.

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Rod Laver

L’unica finale persa da Emerson fu nel 1962 contro un certo Rod Laver: Rocket si aggiudicò un primo set molto combattuto, rifiatò nel secondo per poi regolare il connazionale con un duplice 6-4. Questo suo secondo successo nel torneo, dopo quello del 1960, gli permise di avviarsi verso il suo primo Grand Slam. Come tutti gli appassionati sanno si ripeté per una terza volta, da professionista, durante la sua cavalcata trionfale del 1969; in finale non lasciò scampo al povero spagnolo Gimeno liquidato con un perentorio tre set a zero. Inutile stare qui a ripetere chi sia stato Laver per la storia del tennis.

Con l’avvento degli anni Settanta la bandiera stelle e strisce tornò a sventolare sul pennone più alto grazie ad Arthur Ashe che vinse il suo unico Australian Open nel 1970 contro tal Dick Crealy, mai più ripetutosi a simili livelli.

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 In alto Arthur Ashe, in basso John Newcombe.

La gamba zoppa del Grand Slam

L’onda lunga dei tennisti indigeni stava per esaurirsi, il canto del cigno fu il doppio successo del “vecchio” John Newcombe nel 1973 e 1975, dal gioco potente, ma dalla volée adorabilmente classica. La vittoria del giovane astro yankee Jimmy Connors nel 1974 non fu certo sufficiente a risollevare le sorti di un torneo che stava per inabissarsi in una decadenza preoccupante.

Il tennis diventava uno sport sempre più fisico e impegnativo che stressava corpo e spirito, muscoli e sistema nervoso, in egual misura. La collocazione del calendario era letale per l’Australian Open: i migliori tennisti chiudevano la stagione dopo gli ultimi tornei europei ed eventualmente la finale di Davis e non pensavano minimamente di intraprendere la lunga trasferta verso Down Under, costretti ad adattarsi a un brusco cambiamento climatico e a differenti condizioni di gioco. Poco attratti da un misero montepremi, preferivano di gran lunga passare le festività natalizie a casa, ritemprarsi lontano dai tornei e magari iniziare la preparazione per la nuova stagione.

Il torneo, orfano dei suoi eroi locali, visse il suo periodo più buio: gli sponsors latitavano e i goffi tentativi di cambiare in continuazione data in calendario in un ping pong insensato tra dicembre e gennaio per attrarre i migliori non portò gli effetti sperati. Nel 1977 ci furono due tornei: uno a gennaio e uno a dicembre e se li aggiudicarono due dignitosi tennisti, vale a dire gli americani Roscoe Tanner e Vitas Gerulaitis, ma già l’anno prima, 1976, si era avuto un vincitore piuttosto anonimo come Mark Edmondson che si può ben definire l’ultimo dei Mohicani di casa. Seguì la doppietta 1978 /1979 dell’argentino Guillermo Vilas, non certo un erbivoro, a conferma dell’abbassamento preoccupante del livello di partecipazione, finché il letale filotto di vittorie targato Teacher (Usa) e Kriek (Saf) decretarono il punto più basso della sua storia tra il 1980 e il 1982.

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STEFAN EDBERG SWEDEN WIMBLEDON...26 JUN 1993: STEFAN EDBERG OF SWEDEN IN ACTION IN THE 1992 WIMBLEDON CHAMPIONSHIPS.

In alto Mats Wilander, in basso Stefan Edberg.

A poco valse l’arrivo della nouvelle vague svedese con i due successi di un promettente Mats Wilander nel 1983 e nel 1984 contro Ivan Lendl e Kevin Curren e gli altrettanti del suo connazionale Stefan Edberg, eccelso giocatore di rete, nel 1985 e nel 1987, che si trovò di fronte lo stesso Wilander e l’idolo di casa Pat Cash, classico volleatore australe. Nel 1986, tecnicamente, il torneo non si disputò perché ci fu l’ennesimo giro di valzer con la collocazione che tornava da dicembre a gennaio.

Innovazione e rinascita

All’Australian Open serviva un cambiamento radicale per non cadere nell’oblio e allontanare l’infamante nomea di gamba zoppa dello slam che ormai tutti gli addetti ai lavori dell’epoca gli avevano affibbiato. Con coraggio si ripartì da zero: si costruì a Flinders Park un moderno ed efficiente complesso fornito di impianti all’avanguardia e che verrà dotato nel corso degli anni di ben tre campi con tetto retrattile, si abbandonò l’erba per il cemento come già da qualche tempo aveva fatto lo US Open e si scelse definitivamente di disputare il torneo nella seconda metà di gennaio per far si che l’evento diventasse la manifestazione inaugurale della stagione. Tre mosse che ebbero pieno successo e rivitalizzarono la competizione immediatamente.

Nel 1988 toccò così a Mats Wilander inaugurare il nuovo corso e aggiudicarsi il suo terzo titolo superando in una finale tiratissima il runner-up dell’anno prima Pat Cash; l’incontro fu una maratona che si concluse con un long set 8-6. Si chiuse in questo modo una strepitosa cinquina svedese che mitigò parzialmente la delusione di non aver praticamente mai visto calcare i campi australiani il grandissimo Bjorn Borg se non per una anonima e sparuta partecipazione nel 1974.

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In alto Ivan Lendl, in basso Boris Becker.

Il cecoslovacco Ivan Lendl raggiungerà il ragguardevole e definitivo totale di otto slam vinti proprio a Melbourne con una pregevole doppietta: nel 1989 superò ai quarti un John McEnroe che stava sparando le sue ultime cartucce e che non aveva mai avuto troppa fortuna, né presenze, a dir il vero, in Australia ed in semifinale un Thomas Muster che gli diede un bel filo da torcere per poi vincere in scioltezza in finale contro il cecoslovacco Miroslav “gattone” Mecir, tennista sopraffino e di superba intelligenza tattica, ma troppo leggerino per il suo ben più quotato compatriota. Nel 1990, invece, dopo aver sorvolato in tutta tranquillità il torneo con un solo set perso in sei incontri, la dea bendata gli concesse il suo favore perché si ritrovò di fronte un Stefan Edberg in ottima forma; lo scandinavo gli aveva sottratto il primo set e stava servendo per il secondo quando accusò un grave problema alla schiena, cedette il tie break del secondo parziale e si ritirò sul 5-2 del terzo set, fu la prima e unica finale della storia a concludersi prima del termine.

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Jim Courier

Eroi moderni

Si entrò definitivamente negli anni Novanta del neonato power tennis con il primo dei due trionfi del tedesco Boris Becker (1991): dopo tre ore di battaglia ebbe la meglio sul suo eterno rivale Lendl che gli cedette così lo scettro; si ripeterà poi nel 1996 in una finale molto meno tirata contro il cino-americano Michael Chang. Nel biennio successivo 1992 / 1993 risplendette la stella di Jim Courier, ragazzone pieno di salute americano: in entrambe le occasioni piegò in quattro set e più di due ore e mezza di gioco uno scorato Stefan Edberg che accumulò così tre finali perse in quattro anni.

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Pete Sampras

Il divino americano “Pistol” Pete Sampras avrà il suo battesimo del fuoco nell’edizione del 1994: dopo aver rischiato l’eliminazione già al secondo turno contro Kafelnikov spuntandola solo 9-7 al quinto; ebbe in seguito il suo bel da fare nel superare i turni successivi a suon di tie break, folgori di servizio seguite da volée impeccabili nei rari casi in cui c’era bisogno, ma in finale vinse con relativa facilità contro un altro americano, Todd Martin, tennista gentleman sui due metri di altezza, che visse con garbo e cristiana rassegnazione il suo ruolo di comprimario in quegli anni pieni di campioni tra le fila statunitensi e che ebbe anche la sfortuna di arrivare in fondo del tutto prosciugato dopo un’epica battaglia in semifinale contro il solito Edberg, sempre molto competitivo a Melbourne.

L’anno seguente, 1995, Sampras arrivò con scarse energie all’appuntamento cruciale a causa dei match alquanto impegnativi contro lo svedese Larsson negli ottavi e Courier nei quarti; in entrambi i casi Sampras compì il miracolo di recuperare uno svantaggio di due set. L’incontro con Jim resterà memorabile per la forte commozione che sconvolse l’animo di Pete quando sull’orlo della sconfitta qualcuno dagli spalti gli urlò: “fallo per Tim” cioè il suo coach Gullikson, da poco colpito da un male che gli sarà fatale; Sampras cominciò a piangere a dirotto, ma più piangeva più tirava degli aces imprendibili e alla fine riuscì incredibilmente ad imporsi tra il tripudio generale. In finale incontrò il suo rivale di sempre, André Agassi e fu uno scontro bellissimo: il kid di Las Vegas disputò un match sontuoso anestetizzando il servizio supersonico di Pete ed imponendosi con il suo gioco fatto di anticipi estremi e geometrie asfissianti, un 3-1 che non ammise repliche.

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André Agassi

Sampras si regalò il secondo sigillo nel 1997 dopo essere stato sull’orlo del collasso negli ottavi di finale per la temperatura a dir poco rovente contro lo slovacco Hrbaty. Pete faticò non poco a superare lo spagnolo Albert Costa nel turno successivo, ma poi procedette con maggior agio fino al trionfo in finale e lasciò solo otto games a Carlos Moya riducendo l’iberico a umile sparring partner.

Negli anni seguenti ci furono due finali tra stelle non di primaria grandezza: nel 1998 data la clamorosa eliminazione di Sampras per mano dello slovacco Karol Kucera, la finale si disputò tra l’istrionico ceco Petr Korda e l’ombroso ed enigmatico cileno Marcelo Rios, prevalse il primo nettamente e un po’ a sorpresa mentre nel 1999 si verificò la prima vittoria russa con Eugenij Kafelnikov che sconfisse lo svedese Thomas Enqvist.

All’inizio del nuovo millennio ritornò alla ribalta il redivivo Agassi che si concesse una doppietta d’alta classe: nel 2000 dopo una semifinale al quinto contro Sampras impedì la conferma del titolo a Kafelnikov, nel 2001 riuscì a piegare la resistenza in semifinale di Pat Rafter, australiano classico esponente del serve & volley e poi piallò in finale il malcapitato Arnaud Clement.

I due anni successivi furono caratterizzati da eventi particolari di ben diversa natura: nel 2002 il russo Marat Safin venne inopinatamente sconfitto da un onesto tennista svedese rispondente al nome di Thomas Johansson non proprio esclusivamente per i meriti del suo avversario quanto, più che altro, a causa della notte brava che il genio della steppa si era concesso appena qualche ora prima della finale. Nel 2003 l’ombra dell’ americano Andy Roddick, reduce da un incredibile 21-19 al quinto set contro il marocchino El Aynaoui nei quarti di finale, venne liquidata dal volenteroso Rainer Schuttler in semifinale; il tedesco, a sua volta, fu umiliato in finale da Andrè Agassi che alla tenera età di 33 anni incassò il suo quarto titolo.

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Marat Safin

L’era contemporanea

Con il 2004 si entrò nell’era di Roger Federer, il fenomeno svizzero cominciò a deliziare gli appassionati di tutto il mondo con il suo tennis unico per bellezza e armoniosità e incamerò il suo primo Australian Open sconfiggendo in finale Safin in tre set dopo aver faticato non poco nei turni precedenti. Marat però si prese una memorabile rivincita dodici mesi dopo: i due diedero vita ad una semifinale di altissimo spessore qualitativo che si concluse al quinto set 9-7 per il russo, quel giorno Safin sembrò veramente imbattibile come, purtroppo per lui, poche altre volte in carriera. Indimenticabile il superbo pallonetto con cui annullò un match point all’incolpevole elvetico. Questa volta si astenne da baccanali orgiastici prima della finale e si prese il titolo meritatamente sconfiggendo l’idolo di casa Lleyton Hewitt che in molti pensavano fosse l’uomo giusto per riportare l’Australia al successo, ma il destino volle altrimenti.

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Roger Federer

Nei due anni seguenti Federer rientrò in carreggiata ottenendo il suo secondo e terzo titolo, nel 2006 il percorso fu piuttosto accidentato: fu costretto al quinto set dal tedesco Tommy Haas negli ottavi, ebbe la meglio sul russo-ucraino Nikolay Davydenko solo dopo due tie break nei quarti, mentre in semifinale un altro tedesco e un altro “Nicola”, Kiefer, compì l’impresa di strappargli un set. La grande sorpresa del torneo, il cipriota Marcos Baghdatis, in stato di grazia in quel frangente, lottò ad armi pari nei primi due parziali della finale per poi lasciare campo libero a Roger. Nel 2007, invece, fece tutt’altro torneo: fu una marcia trionfale, 21 set a zero ed ordinaria amministrazione contro il cileno Fernando Gonzalez in finale che nulla poté nonostante il suo minaccioso soprannome di “mano de piedra” a causa del suo devastante diritto.

2008, entriamo nell’ultimo decennio del torneo…e passo a coniugare il mio infinito racconto al tempo presente. Questo sarà ricordato come l’anno della rivelazione di Nokav Djokovic, il serbo termina il suo apprendistato tra i grandi e mostra di che pasta è fatto, gioca un tennis veloce, potente, solido e che toglie il respiro; l’elasticità e la mobilità sono le sue principali caratteristiche, scoraggia gli avversari non mostrando lacune né punti deboli di una certa importanza. In semifinale non dà scampo a Federer con un secco 3-0, si ritrova in finale contro Tsonga che, dal canto suo, aveva annichilito Nadal. Il match è tirato e incerto e si risolve con un tie break al quarto set nettamente in favore di Nole: un’altra stella di primaria grandezza brilla nel firmamento del tennis.

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Rafael Nadal

L’anno seguente, 2009, lo definirei quello dell’umiliazione di Federer, nel 2008 era successo l’imponderabile: Nadal aveva sconfitto Roger in finale a Wimbledon, ora lo ritrova di fronte anche agli Australian Open. Tempo di rivincita ? No, per nulla; la “nadalite” sembra essere una malattia incurabile che si è espansa inesorabilmente a macchia d’olio dalla terra rossa, all’erba fino al rebound ace di Melbourne. E’ una partita incerta e appassionante, Roger prova a scrollarsi di dosso Rafa, ma non c’è nulla da fare, anzi, la sua è una rincorsa infinita, il punteggio segue il ritmo di un pendolo implacabile e lo svizzero non può far altro che apparigliare lo spagnolo prima sull 1-1, poi sul 2-2. Si va al quinto, Federer crolla, Nadal si aggiudica il set per 6-2. Urla belluine di immensa felicità per il primo strameritato Australian Open di Rafa, pianto dirotto, sincero e accorato di Roger che sembra un bambino a cui qualcuno ha sottratto il giocattolo più bello.

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Novak Djokovic

Nel 2010 Federer si consola dello smacco subito e senza troppi patemi si impone in finale sullo scozzese Andy Murray conseguendo il suo titolo numero 4, ma poi comincia l’era Djokovic: cinque vittorie in sei anni, la Rod Laver Arena, campo centrale di Melbourne, diventa il suo giardino di casa. Un dominio addirittura superiore a quello della buonanima di Crawford, pensate un po’ ! Il suo agnello sacrificale in finale è stato per lo più il povero Murray che non riuscirà mai ad avere la meglio su di lui: sconfitto nettamente nel 2011, superato dopo due set alla pari nel 2013 e nel 2015, regolato con un secco 3-0 nel 2016, insomma un incubo senza fine per il britannico.

Un capitolo doverosamente a parte merita la finale del 2012 che passerà alla storia come il match più duro e lottato mai disputatosi in una finale slam: sei ore di estenuante braccio di ferro o pugilato ad oltranza, scambi infiniti che spossavano persino gli spettatori; Novak Djokovic e Rafael Nadal si battono come Titani da mitologia greca, alla fine prevale di un soffio Nole che porta a casa il suo terzo trofeo; i due eroi, distrutti, alla fine non si reggono in piedi, senza più una stilla di energia sono costretti a sedersi durante la premiazione.

L’unico passo falso di Djokovic è stato nel 2014 quando viene estromesso ai quarti dopo un match molto duro contro lo svizzero di riserva Stan Wawrinka, si conclude 9-7 al quinto, ma non è stata una sconfitta subita per caso, infatti l’elvetico, in formato extra lusso, batte in semifinale Berdych e poi in finale nientemeno che Nadal dimostrando una superiorità netta dettata soprattutto dal suo rovescio implacabile.

E arriviamo a quello che è successo nell’ edizione 2017, i protagonisti degli anni precedenti Andy e Nole hanno abbandonato precocemente il torneo, dopo aver superato tutt’altro che agevolmente turni di qualificazione assai complicati si ritrovano in finale gli eterni duellanti: Federer e Nadal, la rivincita del 2009. Questa volta ad avere l’abbrivio del punteggio è Roger che conduce per un set a zero e poi per due a uno, ma la caparbietà dell’avversario è encomiabile e si va al quinto. Qui accade quello che non ci si aspetta: Nadal brekka Federer, sul 3-1 per lui tutti pensano che sia finita, da quel momento Roger diventa ingiocabile e disputa quelli che possono essere tranquillamente definiti i cinque games migliori mai espressi contro la sua eterna nemesi. Morale della favola: 6-3 per Roger, quinto titolo, Federer si aggiudica il trofeo dopo sei anni di digiuno e a quasi cinque dal suo ultimo slam (Wimbledon 2012). Rimarrà negli occhi di tutti il bellissimo dritto in lungo linea e di controbalzo sul 4-3 del quinto set che ha suggellato il trionfo di Re Roger.

L’anno seguente, 2018, Federer ferma il tempo e si ripete, forse meno dominante che nel 2017, riesce comunque ad avere la meglio in finale sul croato Cilic, non certo conosciuto per il cuor di leone; Marin soffre la pressione e il nome dell’avversario e si arrende nel quinto e decisivo set. Per Roger sono sei titoli e raggiunge così in testa alla classifica dei plurivincitori Emerson e Djokovic.

Sono giunto alla fine, gli Australian Open nel corso dei decenni sono diventati un torneo di importanza non certo inferiore alle altre prove dello slam pur avendo dovuto lottare tra difficoltà di ogni genere sconosciute ai suoi tre fratellini. Defezioni continue, calendario infelice, superficie obsoleta erano dei gravi ostacoli che gli organizzatori hanno avuto la forza di superare con pragmatismo e coraggio per creare una competizione all’altezza del rango che da sempre gli si conviene. Negli ultimi tempi voci che avevano qualche fondamento ipotizzavano uno spostamento del torneo in ricchi paesi asiatici interessati a mettere le loro avide mani sul prestigioso marchio Grand Slam, formulo un augurio sincero agli amici australiani di poter respingere qualsiasi tentativo di spezzare una sacra tradizione, sono certo che con tutto quello che hanno passato per costruire questo bellissimo evento si impegneranno a preservarlo e a custodirlo coniugando passione, professionalità e semplicità e continuando a fare le cose come solo…Down Under le sanno fare.

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Praticamente tutte le citazioni, gli aneddoti e le curiosità di questo “resoconto storico” sono tratte dal capolavoro di Gianni Clerici “500 ANNI DI TENNIS”, opera indispensabile per conoscere il nostro amato sport in ogni suo aspetto. Non saremo mai abbastanza grati per quello che il “Vecchio Scriba” (come ama autodefinirsi) ha fatto per noi appassionati.

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