Corrado Barazzutti, Paolo Bertolucci, Adriano Panatta, Tonino Zugarelli. Quattro campioni, la vittoria della Coppa Davis nel ‘76 in Cile, la storia di un’Italia divisa. La voce un po’ trascinata e sorniona di un Panatta ormai settantenne che non perde però l’occasione di schernire Barazzutti, suo eterno rivale. L’ironia del salomonico Bertolucci, spesso moderatore nel difficile rapporto tra i suoi compagni di squadra e l’allenatore ex campione Nicola Pietrangeli.
Il docufilm di Domenico Procacci è il racconto corale, nostalgico e aneddotico di un tennis che non esiste più, ma è anche la cronaca di un’epoca complessa, guardata e vissuta da una prospettiva diversa. La finale di Coppa Davis del ‘76 si disputò a Santiago del Cile, sul campo centrale dove, nel 1973, Pinochet aveva tenuto prigionieri gli oppositori del regime.
Il tennis italiano viveva una delle sue migliori stagioni: Adriano Panatta aveva conquistato la terra rossa romana e parigina. I nostri quattro avevano battuto la Gran Bretagna a Wimbledon nella finale europea di Coppa Davis, guadagnandosi l’accesso alle semifinali intercontinentali. Leonid Brezhnev, il segretario generale del Partito Comunista, aveva costretto l’Unione Sovietica a farsi da parte nel tabellone, vietando di ospitare il Cile per protesta contro il regime di Pinochet. Il Cile era arrivato così in finale senza combattere. La partecipazione dell’Italia al torneo era al centro di accese discussioni, anche in Parlamento.
Il tennis era vetrina di scontri tra gli intellettuali e artisti dell’epoca. “La sorte della Coppa è controversa, c’è chi vuol che si vada e viceversa. Io sono per no anche se poi sono sportivo come tutti voi. Ma purtroppo per il tennis e per la Coppa Davis un solo guaio c’è e si chiama Pinochet. D’accordo che ci piace l’insalata e che l’insalatiera è alla portata ma non mischiamo con faciloneria la dittatura alla democrazia” cantava Modugno nella sua ballata, scritta apposta per scongiurare il viaggio in Cile.
Favorevole alla partecipazione, invece, Ugo Tognazzi: “Noi in Cile esporteremo automobili, sicuramente cinema, e importiamo rame. Ora, perché proprio Panatta non lo vogliamo esportare?”. Alla fine l’Italia giocò e vinse. In campo i nostri indossarono magliette rosse, in segno di protesta, ma nessuno ci fece caso. Fu comunque un gesto di ribellione. Una storia che, oggi più che mai, merita di essere raccontata anche per far luce sulle contraddizioni del mondo dello sport, quando maldestramente si avventura nei meandri della politica.
Penso alla confusa ed inspiegabile presa di posizione dell’ATP e WTA su Wimbledon, con l’esclusione dei tennisti russi e bielorussi e la decisione di non attribuire punti validi per il ranking. Penso all’appiattimento dei tennisti su questa aberrante decisione. La maglia rossa di Panatta giganteggia sull’indifferenza degli atleti moderni sulle vicende di questi giorni. Serve che il tennis (e lo sport, in generale) ricominci a veicolare con eleganza ed intelligenza messaggi di pace e ribellione. Il coraggio non è solo una demi-volé giocata da fondocampo, il coraggio è quella maglietta rossa.
“Nessuno ci chiese mai nulla del perché di quella maglietta rossa. E la responsabilità fu dei giornalisti presenti.”
Adriano Panatta
Roberta Massarelli