Articolo originale pubblicato su RF Tennis Blog il 25/06/2019
Di Nicola Balossi Restelli
Martedì 18 giugno 2019, la freccia del Nord
Ebbene sì, lo confesso: non avevo mai visto Federer dal vivo. Colmare questa lacuna era in cima alla mia to do list. Prima che sia troppo tardi, mi dicevo. Bene, dopo aver accarezzato l’idea Madrid, rifuggito le speculazioni romane e assistito impotente alla sparizione dei biglietti per Basilea, ho rispolverato la vecchia idea Halle, che mi girava in testa ormai da qualche anno.
L’appuntamento con il mio amico che per convenzione chiamerò Carlo è alle 12:30 nel parcheggio di Pagano: l’asfalto si scioglie sotto i piedi. Il navigatore ci prevede in arrivo verso le 21:30, per cui non indugiamo in convenevoli e puntiamo la prua a settentrione. Diciamo e ascoltiamo un bel numero di parole, mentre le sagome forti della Svizzera ci sfilano a fianco in silenzio. Il viaggio è lungo, ma aiuta a misurare la portata dell’impresa, che si mostra lentamente man mano che i chilometri sgocciolano via, come una statua gigantesca che con movimenti impercettibili venga spogliata dei vestiti e riveli la sua nudità .
Nelle brevi pause in autogrill, scopriamo nuove civiltà con schermi a led incastonati negli orinatoi e negli specchi del bagno, ma andiamo avanti senza fare una piega.
Non so dove siamo quando scatta l’ora X. Io, che non sto guidando, comincio ad armeggiare con i cellulari che non funzionano a dovere. Non vogliamo troppo parlarne, ma sappiamo entrambi che se Roger dovesse uscire al primo turno con Millman, il nostro viaggio perderebbe una bella percentuale del suo senso. La connessione va a singhiozzo, ma pare che la sfida non sia facile come auspicavamo. Il ragazzo ci ha già causato un brutto momento agli ultimi US open, non vorremmo che si ripetesse.  È in quel momento, mentre il primo set sembra avviato alla roulette russa del tie break, che accade l’imponderabile. Scorrendo la strada sul navigatore, mi accorgo che abbiamo impostato la destinazione sbagliata e stiamo correndo decisi verso Halle Saale, che non ha nulla a che vedere con Halle Westafallen. Il ricalcolo è piuttosto angosciante, alla fine viene fuori che tra i pit stop e l’allungatoia il nostro orario d’arrivo è slittato oltre le 23. Segue un black out dei dati telefonici, per cui non sappiamo nulla del match di Federer. Mi mette l’ansia non tenerlo sotto controllo, non poter seguire passo passo il live score. Quando infine il telefono si riprende, ho un mezzo infarto, i due nomi sono in neretto, il che significa che il match è finito. Passa una frazione di secondo – io sono un po’ lento – prima che il mio cervello decifri e organizzi le informazioni. Ebbene sì: Roger ce l’ha fatta. Il nostro viaggio è nel caos, ma ora sappiamo che giovedì lo vedremo.
Per fortuna il nostro archivio discorsi è potenzialmente infinito, per cui ci facciamo coraggio e costringiamo il tempo a passare, insieme ai chilometri. Quando vedo materializzarsi nell’oscurità la scritta Gerry Weber, penso a un miraggio. Sono talmente stanco che me la immagino adagiata su un promontorio, un po’ alla Hollywood, e ci metto qualche istante a capire che in realtà è soltanto l’insegna di un capannone, insomma un outlet o un centro di logistica. Sembra di stare in un sogno che poi rischia di cedere alla seduzione dell’incubo nel momento in cui troviamo l’albergo chiuso e deserto. Ci attacchiamo al telefono e al citofono e ne sentiamo il suono insistente attraverso il vetro, ma nessuno ci risponde. Passa un brutto quarto d’ora prima che un sant’uomo compaia come un profeta dal colletto bianco e ci spieghi come contattare i gestori dell’hotel e ritirare la nostra tessera con un codice. Lasciamo i bagagli in camera e ci prepariamo ad affrontare il problema della cena. In cielo, il lungo crepuscolo dall’eco nordico si è spento da poco per lasciare il passo a una luna quasi piena schermata dalle nubi, e noi giriamo per le campagne in cerca di qualche insegna illuminata, ben consci che trovare un pasto qui a quest’ora è come farlo da noi alle quattro di notte. Un’impresa disperata.
Dopo un paio di speranze disilluse ci imbattiamo nel Portofino, un pizza kebab il cui richiamo al gioiello ligure si ferma decisamente al nome. Per il resto è esattamente come entrare nel quadro dei nottambuli di Hopper. Sarà pure piacer figlio d’affanno, ma siamo felici, trangugiamo una pizza che mi ricorda molto quelle cubane, ci ingozziamo di un cheeseburger cipollatissimo dal sapore unico, innaffiamo il tutto con due birre a testa e salutiamo i nostri nuovi amici turchi. È tutto vero: siamo ad Halle e tra due giorni vedremo il re con i nostri occhi, senza mediazioni catodiche, senza parabole, connessioni wireless, 3G e via dicendo.
Mercoledì 19 giugno 2019, il parco giochi
Dormiamo il sonno dei giusti e ci svegliamo un po’ accartocciati. Se per caso avessimo avuto qualche dubbio sull’apporto calorico della dieta teutonica, ci pensa un altro nuovo amico turco a fornirci un breakfast come a casa sua, una cosina leggera fuori menù, con tre uova al tegamino a testa, pancetta, formaggio pomodoro e cose così. Ora siamo pronti per raggiungere il Gerry Weber Stadion. Qui anche il navigatore si commuove di fronte alla Roger-Federer-Allee.
Ogni dettaglio ci parla di epiche imprese sull’erba, le stelle della walk of fame all’ingresso parlano di un torneo giovane che si sta facendo, appunto, storia. Un pensiero a Tommi Haas.
Approcciamo il villaggio intorno allo stadio, che per due giorni sarà la nostra seconda casa, come un bambino approccia il parco giochi: ci piace tutto e vogliamo tutto. Non c’è il papà che ci impone le regole, perciò procediamo senza indugio a un paio di giri di bevanda nazionale, benché siano passate da poco le dieci del mattino o giù di lì. Poi è il momento di un’emozione che non tradisce mai, reminescenza di anni di milanismo militante. Entri, sali le scalinate, e il cuore aumenta la frequenza dei battiti, aiutato dallo sforzo fisico. A quel punto varchi l’ultima soglia e lanci il primo sguardo al campo. Ecco, non so bene spiegare il motivo, ma in quello sguardo si concentrano mille e più ricordi accesi e ravvivati dalle aspettative, si distilla il senso di essere qui di persona e non soltanto dietro uno schermo. Questo colpo d’occhio ha un valore inestimabile e cerco di imprimerlo bene in mente. Il programma del primo giorno è fitto. Si affrontano per primi Albot e un Goffin sempre piacevole, ma è il secondo match a regalare le sensazioni più forti.
Struff, idolo di casa, è supportato da un pubblico numeroso e caldo, mentre Kachanov è pur sempre un topo ten e uno dei vari predestinati presenti nel circuito. I due picchiano duro, la loro potenza echeggia per l’arena. Il pubblico, educato e signorile, sostiene con passione il tedesco, ma non fa mancare l’appoggio al russo nei momenti di difficoltà . Si percepisce il respiro dello stadio, il battito del cuore. Durante gli scambi c’è un silenzio surreale per la quantità di persone, un silenzio collettivo e carico che lascia piena centralità agli struggenti grugniti e ai versi di autoincitamento o le imprecazioni e soprattutto al colpo della racchetta sulla pallina. L’eroe locale esce sconfitto in tre set con onore e lo stadio si svuota mentre Herbert e Stakhovsky si apprestano a scendere in campo. Dopo un po’ lasciamo anche noi l’arena per assaltare i bratwurst e dissetarci con quegli integratori al luppolo che qui vanno per la maggiore. Poco più tardi cediamo al fascino indiscreto del gin tonic truck e ci sediamo a contemplare un campo d’allenamento vuoto e a meditare sull’infinito.
In seguito ci palleggiamo tra Coric – Sousa, che avrebbe meritato più attenzione, e un bel doppio che mette di fronte, su spalti secondari ma gremiti, la coppia Kachanov-Albot e il duo Berrettini-Roja. Sul balcone dell’hotel lì di fianco avvistiamo Sasha Zverev, invero un po’ annoiato.
Abbandoniamo il Gerry Weber con la pancia piena, leggermente incupiti dalla notizia che il re domani giocherà l’ultimo match, il che renderà la nostra successiva macchinata verso Milano una montagna da scalare in notturna. Ma sappiamo che ne vale la pena.
La sera visitiamo un’ottima hamburgeria di Bieldfield dove ci sfiora un temporale estivo con la sua mano pesante. Decidiamo di rientrare presto e di dormire il più possibile in previsione della giornata campale di domani.
Giovedì 20 giugno, il giorno più lungo
È giovedì 20 giugno 2019 e, per quanto siamo già entrati in quella fase della vita in cui ti ricordi tutto dell’infanzia ma ti dimentichi ciò che hai fatto il giorno prima, non ci scorderemo facilmente questa data, forse perché il sogno ha uno stretto e indissolubile legame proprio con quell’infanzia che ci rimane intorno per sempre.
Parlando di argomenti futili come la mia lentezza genetica, prendiamo il caffè in una Werther chiusa e indifferente al mondo, tutta presa dalla preparazione di una sagra del paese, una processione o qualcosa di simile. Ma noi non ci saremo.
Fuori dal Gerry Weber c’è il tempo per un riunione di redazione con il deus ex machinadell’RF Tennis Blog, con il quale ci troviamo d’accordo su tutto. Poi è il momento del tennis, intervallato da qualche pausa in cerca di regalini per la famiglia (ovviamente compreremmo di tutto e di più ma ci diamo un contegno) e i soliti immancabili bratwurst, ahimè senza birra, in previsione del nostro lungo viaggio.
Il derby italiano tra Seppi e Berrettini si lascia davvero guardare, mentre Zverev oscilla su un’altalena, ma in sostanza sembra giocare più contro se stesso che con l’avversario, il quale sparisce di fronte a questo conflitto interiore che si riverbera sugli appassionati tifosi, partecipi del dramma di questo ragazzo fortunato che però non riesce a trovare il proprio compimento e si perde lungamente a scuotere il capoccione biondo per scacciare i dubbi e la malinconia. Vedremo cosa succederà . Il dritto e il servizio sono molto buoni, l’età è verdissima. In ogni caso riesce a portare a casa il match. Bautista – Gasquet invece ce lo siamo persi a causa dei bratwurst di cui sopra e ci dispiace soprattutto per il francese, così bello quando è bello, che le ha prese, ma di sicuro non avrà fatto mancare qualche spettacolare rovescio.
Da segnalare fra i nostri vicini alcuni sosia di rilievo – quando siamo stanchi cominciamo a vedere sosia: Sean Connery, un vecchio scommettitore che rispecchia in pieno l’idea di eleganza teutonica, fatta di camicie a maniche corte a scacchi sgargianti, pantaloni di larghe forme e sandali con calze di spugna, senza paura; Beppe Marotta, che più tardi non nasconderà un sommesso tifo contro il re – lo dico sempre che non bisogna fidarsi dei bianconeri passati presenti o futuri; e Renzo Piano, che per ironia della sorte durante il match di Zverev si produce in una flatulenza rumorosa sul finire di uno scambio – probabilmente voleva approfittare dell’applauso per coprirsi ma toppa clamorosamente i tempi – rischiando di stroncarci prematuramente per le risate ma non solo. In tale compagnia ci sentiamo al sicuro.
Ci guardiamo, perché adesso sta per giungere il momento e quasi stentiamo a crederci. Sappiamo che durerà poco, che fuggirà via come tutte le meraviglie che viviamo, perciò vorremmo fermare questo istante, fissarlo con un chiodo alla parete della nostra esistenza e appenderlo come un quadro in cui immergersi ogni volta che si vuole.
Ed ecco che il re entra in campo. Non perdo un fotogramma, dal riscaldamento al match point, e sono talmente rapito che non mi rendo bene conto di cosa stia succedendo. Conosci talmente bene ogni suo gesto che è come vedere tuo fratello, come sentire i passi di tua moglie o le voci squillanti dei tuoi figli. C’è un senso di casa. Sì sì, è tuo fratello, ma al tempo stesso è Dio. Dal vivo lo capisci ancora meglio, come se ogni tua supposizione trovasse conferma perché adesso l’unica mediazione tra te e lui è la luce, e si sa che la luce non mente anche se ti racconta qualcosa di incredibile. E adesso – come dire? – hai in mano la prova di ciò che prima sapevi solo per intuizione. In fondo ogni filosofo si è confrontato con la dimostrazione dell’esistenza di Dio, tu invece non hai bisogno di ragionare, perché Dio te lo trovi lì davanti.
Ecco, è difficile uscire da questo stato di catatonica meraviglia per argomentare in modo concreto e sensato, ma ci proviamo. Fa ancora più impressione il repertorio, la varietà di colpi e di conigli rispetto ai campioni normali. E la naturalezza con cui questo avviene. E la rapidità . La variatio è probabilmente l’elemento che manda in confusione gli avversari: non sai mai cosa farà . Può dare potenza o smorzare, può tagliare oppure appoggiarsi in modo deciso sulla forza del colpo altrui, può scendere a rete come un falco o semplicemente piazzare la palla in un posto impossibile.
La partita è dura, anche perché Tsonga in questi mesi ha lavorato tanto e sembra aver ritrovato una forma che non si vedeva da anni. E Roger? Be’, Roger è celestiale anche quando sbaglia – e oggi sbaglia – perché sembra decidere tutto lui anche quando è sotto pressione. Prova a fare cose impossibili e non si rifugia mai nella soluzione semplicistica dettata dalla paura. Persino il suono della pallina sulla sua racchetta ha qualcosa di diverso, qualcosa di nobile. Forse, semplicemente, mentre gli altri giocano a tennis, lui fa un altro sport. Soffre, risale con classe dal 15/40 nel quinto game, sul cinque pari invece non trasforma un set point e comincia male il tie break, trovandosi sotto 3-0. Poi però lo porta a casa con una grande reazione e un parziale di sette punti a due. La sofferenza, provata dal vivo, è un po’ diversa. Percepisci meglio la sua forza anche quando sta perdendo, o forse comprendi ciò che succede agli avversari, quanto rischiano di rimpicciolirsi di fronte al suo carisma anche se stanno giocando bene, e forse sono superiori. Sull’onda del successo, Roger fa il break e il secondo set sembra indirizzato bene, poi il francese sale di livello e approfitta di alcune tipiche amnesie rogeriane, breakkandolo due volte per la vittoria del secondo set. Ora la situazione è ribaltata: Tsonga cannoneggia da fondo, mentre Roger sembra stanco e sottotono – il che si traduce in una palla break soltanto, ma accompagnata da un’impressione serpeggiante di maggior fragilità , mentre l’altro serve come un treno senza mostrare debolezza. Poi all’improvviso c’è la zampata del campione. Tsonga cede di colpo il servizio sul cinque pari e il re va a servire per il match. Non ci risparmia qualche brivido aggiuntivo, ma alla fine scaccia i fantasmi con un servizio vincente.
Notte tra il 20 e il 21 giugno, la freccia del Sud
Noi non possiamo permetterci l’imbottigliamento per lasciare il paese, per cui non attendiamo le strette di mano e ci precipitiamo fuori a rotta di collo. Abbandoniamo Halle con la fretta dei fuggiaschi, ma dentro di noi serbiamo intatta l’impressione come un pacchetto da scartare con calma, al momento giusto. Il navigatore prevede un comodo arrivo per le cinque e ventuno del mattino, se aggiungiamo qualche pausa finiremo facilmente oltre le sei, sei e mezza.
Imboccata l’autostrada riusciamo infine a parlare della partita. Verso mezzanotte cominciamo a bere redbull come se non ci fosse un domani, roba che rimarrò teso per tre giorni – nervoso ma vivo – e ci aiutiamo con la musica, spaziando da Faber a Gaber, passando per i Dire Straits e persino una discutibile rivisitazione rap di hanno ucciso l’uomo ragno, imperdibile tributo per i vent’anni dall’uscita dell’album. La notte scivola via mentre noi ci scivoliamo dentro e mi rimane impigliata l’idea che adesso aspetterò domani per avere nostalgia. E così sarà . Torniamo nei ranghi dell’usuale follia quotidiana, adesso né la tv né il computer sembrano grandi abbastanza per contenere il re, ma le successive vittorie hanno un sapore speciale, perché essere stati lì fa impressione, insomma ci si sente parte della scultura e allora questo 102, questo ennesimo capolavoro, occuperà un posto di rilevo nella collana dei ricordi. Vorrei ringraziare Roger, che di sicuro l’ha fatto un po’ anche per noi.
Ora, scacciato il magone, superata l’intossicazione da caffeina e smaltita una parte delle calorie ingerite, torniamo a goderci l’attesa perché, diciamo la verità , l’erba di Wimbledon è sempre più verde – ok, ultimamente è un po’ conciata, ma qui si parla di ideali!
Nicola Balossi Restelli– Si divide tra libri e giardinaggio. Onnivoro di sport, con un’inclinazione smodata e irragionevole verso la pallacanestro, il Milan e naturalmente sua maestà Roger Federer. Vive a Milano con una moglie e tre figli/e.
Articolo originale pubblicato su RF Tennis Blog il 25/06/2019