Premessa: spero che i fatti, presto o tardi, si incarichino di dichiarare spergiuro quello che ho scritto qui sotto.
Roger Federer, ieri pomeriggio, è stato sconfitto in tre set da David Goffin (contro il quale in carriera non aveva mai perso, è bene ricordarlo una volta di più), e il fatto, di per sé isolato, non mi preoccuperebbe. Vi fermo subito: non pensate che io stia scrivendo per creare un processo o un polverone intorno a quello che è accaduto ieri a Londra, o che io sia un accanito tifoso di Nadal e che quindi dopo una delle pochissime sconfitte stagionali dello storico rivale sia qui a dare lo svizzero per finito; non è così, e comunque è un errore che ho già fatto in passato. E sbagliando s’impara, ad esempio, che quel signore che si chiama Roger del tempo se ne frega. La sconfitta, dicevo, di per sé non ha nulla di straordinario o di eclatante, vista da fuori. È assolutamente comprensibile che Federer, dopo un anno in cui ha raccolto dei risultati che nemmeno nel più dolce dei sogni avrebbe sperato, sia arrivato “scarico”, o comunque non al 100%, alle Finals. Anche il fatto che abbia perso con l’ottimo Goffin, a dire il vero, non suscita uno scalpore così grande; per la legge dei grandi numeri può essere in un certo senso prevedibile che chi ha perso sei volte di fila si prenda una e una sola rivincita.
Per quanto mi riguarda, però, non mi sono capacitato di come, una volta entrati nella O2 Arena e nelle dinamiche del match, sia maturata questa sconfitta. Per quanto concerne l’aspetto tattico, riterrete voi con criterio, è arrivata perché Roger era spessissimo in ritardo rispetto a David, il quale colpiva la palla mentre era ancora in fase ascendente e non dava il tempo al proprio avversario non tanto di spostarsi, quanto quasi di finire totalmente il movimento del colpo precedente (in alcune slow-motion si è visto come il piede sinistro di Federer non avesse ancora toccato terra e trovato stabilità quando Goffin stava invece già iniziando ed aprendo il movimento per andare a colpire la risposta). Ma sappiamo tutti che quando in campo c’è Federer, la tattica passa, per così dire, in secondo piano, perché veniamo deliziati dai pasticcini che ci confeziona e ci consegna a domicilio, spesso di una difficoltà immane. Ma ieri, no. O meglio, alcuni colpi da Roger si sono visti, ma non è bastato. Cosa è mancato, allora? La reazione, in parte vero, ma quando mai avete visto Federer caricarsi dopo ogni punto come se dovesse “reagire” a qualcosa, come a un set perso? Poche, e se vi vengono in mente quei “komme jetzt” vi siete anche ricordati che non sono mai più di due o tre a partita. E quindi, cosa non ha funzionato? Cosa non c’è stato e che invece, per vincere, doveva esserci? Probabilmente la risposta è molto più semplice di quanto pensiamo: non è mancato niente. E non è la risposta più facile che potessi dare, ma credo l’opposto: è pressoché impensabile sostenere che a Roger, dopo una sconfitta, non sia mancato niente. Ma è così. Ed è disarmante. Non c’è niente che non sia andato nel verso giusto, o che sia andato addirittura storto, per cui si possa giungere a dare un motivo ragionevole alla sconfitta dello svizzero. Perché non c’è. E non è nemmeno stato l’avversario, perché diciamocelo, con tutto il rispetto ed il bene che possiamo volere ad un ragazzo d’oro come Goffin, non sarà mai superiore, nemmeno in un punto, al divino Federer. Cosa fare, allora? Dopo le altre sconfitte si era sempre a conoscenza del dettaglio su cui lavorare, ma stavolta credo che anche per il quasi-onniscente Ljubicic sia molto, ma molto più di difficile. E dunque, l’unica soluzione plausibile, è quella che consiste nel coprire la giornata di sabato 18 novembre con un velo di Maya. Che però non è mai stato così trasparente.