Almeno per il momento, i tradizionalisti hanno perso. Dopo Wimbledon, termineranno le logoranti discussioni tra appassionati, addetti ai lavori e talvolta giocatori riguardo la necessità di permettere i dialoghi tra allenatori e giocatori durante le partite. Fino al termine della stagione, i coach potranno dare consigli ai propri allievi non soltanto con i gesti, ma anche con qualche parola o brevi frasi.
Così recita, infatti, il comunicato dell’ATP:
«Varie regole sul coaching sono state provate nel mondo dello sport in anni recenti, compresi il coaching on-court e quello tramite auricolare. L’annuncio di oggi allinea per la seconda metà della stagione ATP Tour, US Open e Hologic WTA Tour, nel quale una sperimentazione del coaching off-court è già in corso.
Oltre a garantire coerenza con gli altri sport, a beneficio di giocatori e fan, la prova mira a creare ulteriori motivi d’intrigo e approfondimento per migliorare l’esperienza dei fan.
Il coaching off-court sarà permesso entro le seguenti circostanze:
– Gli allenatori dovranno sedere negli appositi posti scelti dal torneo
– Il coaching (verbale e non verbale) è concesso solo se non interrompe il gioco o non crea alcun ostacolo all’avversario
– Il coaching verbale è permesso solo quando il giocatore è dalla stessa parte del campo (rispetto all’allenatore, n.d.r.)
– Il coaching non verbale (segnali con le mani) è permesso in ogni momento
- Il coaching verbale può consistere in poche parole e/o brevi frasi (non sono permesse conversazioni)
– Gli allenatori non possono parlare al proprio giocatore quando il giocatore lascia il campo per qualsiasi ragione
– Penalità e multe saranno comunque inflitte qualora ci sia un abuso o un uso improprio delle condizioni di cui sopra
- La prova verrà valutata collettivamente alla fine della stagione 2022, per valutare una potenziale inclusione del coaching off-court nelle seguenti stagioni» (fonte: atptour.com; t.d.r.).
Comunque venga accolta questa sperimentazione, è certo che due tornei di importanza capitale implementeranno il coaching: si tratta di US Open e ATP Finals, più che sufficienti per valutare l’impatto dei dialoghi al massimo livello del nostro sport.
Si tratta di un’innovazione non da poco, in un mondo tradizionalista come quello del tennis. All’atto pratico, però, non aspettiamoci rivoluzioni: le regole sono piuttosto chiare, e per il momento non vedremo allenatori sbracciarsi e urlare tra un punto e l’altro come accade ad esempio nel calcio.
È ancora lunga la strada che potrebbe (per alcuni, nella peggiore delle ipotesi) trasformare il tennis in uno sport tatticamente “teleguidato”, qual è più di ogni altro il football americano.
Il tennis ha sempre fatto della sua solitudine un vanto. I giocatori sono soli tra le righe del campo: sul tema si è fatta parecchia letteratura. Numerosi scrittori hanno speso parole a riguardo, per ultimo l’autore della celebre raccolta Vite brevi di tennisti eminenti (Adelphi, 2018) Matteo Codignola:
«Il tennis è uno sport difficilissimo da sopportare, perché è difficilissimo da capire: si gioca e si decide nell’infinitamente piccolo che separa il mestierante dal GOAT, in una zona buia dove le grandi narrazioni convenzionali – il recente docudrama su Mardy Fish, ad esempio, o se per questo anche Open – non riescono a spingersi. E per molti quella zona, alla fine, risulta inabitabile» (M. Codignola, su Rivista Undici, n. 41)
Il campo di gioco, nella sua accezione più intellettuale e in qualche modo romantica, è visto quindi come un labirinto dal quale non si può uscire se non da soli. L’aiuto di un allenatore renderebbe agli occhi di molti un giocatore “meno giocatore”, relegando a un ruolo ancora meno rilevante l’estro e la personalità in favore della più prosaica fisicità.
Uno dei tennisti professionisti più critici nei confronti di questo costume è Nick Kyrgios, ragazzo dalla personalità sopra le righe e dalle opinioni spesso in controtendenza rispetto alla massa. «(Sono) completamente in disaccordo» – spiega il bad boy australiano – «Si perde uno dei tratti unici che nessun altro sport aveva. Il giocatore doveva capire le cose da solo, questo era il bello. Cosa succede in caso di un giocatore di alto profilo contro un giocatore di basso livello che non ha o non si può permettere un allenatore?
In passato anche Federer, Roddick e Moyá hanno preso posizione contro la “legalizzazione” del coaching. «Non sono d’accordo» – affermò lo svizzero nel 2017 – «Penso sia bello che nel tennis ci sia solamente tu. Inoltre non tutti hanno le stesse possibilità per pagare gli allenatori. Potrebbe essere una cosa interessante da vedere, anche se a livello juniores accade ovunque che i coach e i giocatori parlino senza problemi».
Favorevoli all’innovazione appena introdotta sono invece Novak Djokovic, Stefanos Tsitsipas (con lui, il loquace padre Apostolos) e Patrick Mouratoglou, attuale coach di Simona Halep. Proprio l’allenatore francese è stato protagonista di un acceso diverbio su Twitter, con l’ex numero 1 di doppio Todd Woodbridge. «È deludente vedere un allenatore di alto profilo ammettere apertamente di aver infranto il regolamento del nostro sport per così tanto tempo» – ha risposto infastidito l’australiano al tweet esultante di Mouratoglou. «Posso onestamente dire che il mio coach non lo ha mai fatto».
Stabilire chi ha ragione è difficile, ma l’anomalia tutta tennistica per cui il giocatore debba per forza affrontare il suo match come se fosse dentro una bolla è forse poco compatibile con il mondo dello sport moderno. Un’interazione leggera, non eccessivamente invadente come quella già sperimentata dal circuito WTA – siamo seri, qualcuno crede davvero che il problema del tennis femminile sia il coaching? – potrebbe risultare la meno sacrilega agli occhi dei puristi e al contempo la più efficace. Infine, questo cambiamento potrebbe valorizzare la figura dell’allenatore nel nostro sport, rendendolo un ruolo estremamente ambito, come per gli sport di squadra. Neanche le regole di uno sport così antico possono sfuggire al progresso: non è detto, tuttavia, che ciò sia un male.