John McEnroe, “The Genius”: o lo ami o lo odi

Quando il tennis era uno sport geniale – parte prima. Di Roberto "ItalyFirst" Eusebi

Off-season. Per noi appassionati di tennis questo periodo dell’anno è come un’interminabile giornata di pioggia novembrina, chiusi in casa senza poter far nulla di bello, con l’incubo che la moglie ci costringa ad andare a far compere all’Ikea perché “Tanto qui cosa facciamo…”. Solo che dobbiamo moltiplicare il tutto per tre barra quattro settimane: una vera infinita tortura.
Ed infatti le redazioni sempre sul pezzo come quella di Tennis Circus, cercano il modo di calamitare l’attenzione dei lettori in questo periodo di silenzio tennistico assordante, quando non senti volare neppure uno straccio di pallina. Mi chiama il mio “supervisor” che gentilmente mi chiede di occuparmi della questione, trovando un argomento interessante che potesse risvegliare lo spirito tennistico assopito dei nostri internauti: “Se vuoi ancora scrivere per noi, ho bisogno che mi fornisci buon materiale da pubblicare: scegli l’argomento che ti aggrada e datti da fare, in fretta!”.
E come Garibaldi non ho potuto far altro che rispondere: “Obbedisco!”, con l’intima speranza di non venir esiliato a breve come il nostro Eroe dei due Mondi.

La mia scelta, come si desume dal titolo, è ricaduta su John McEnroe, classe 1959, tennista formidabile, noto anche come “The Genius” per chi lo ama come il sottoscritto, altrimenti detto “Superbrat”, il moccioso, per chi al contrario lo odia. Onestamente, anche la versione “mocciosa” del Mac a me faceva impazzire: da quella bocca maleducata sono usciti insulti e improperi terribili soprattutto diretti agli arbitri, ma alcune sue “invenzioni” verbali, come quelle tennistiche che vedremo, sono passate alla storia del nostro sport.

Lo vidi nel 1977 per la prima volta. Ero ancora ebbro di gioia per le fresche imprese compiute da Panatta a Roma, a Parigi e in Cile nel 1976, quando cominciai a sentir parlare, anzi urlare, di John McEnroe. Diciotto anni, praticamente sconosciuto, partecipa al tabellone principale di Wimbledon, passando dalle qualificazioni: giunge fino alla semifinale dove viene battuto in quattro set da “Jimbo” Connors. La vidi quella partita. A posteriori confesso che mi sentii come Bernadette davanti alla famosa grotta francese, ma nel mio caso ero davanti alla TV e a parlarmi non era una luce, ma il suo serve & volley divino.

Da allora è diventato il mio idolo assoluto, l’ho amato alla follia, e lo ammetto, addirittura più dei nostri ragazzi azzurri: chi mi conosce sa quanto io tenga ai nostri colori e quindi potete immaginare a quale livello sia arrivata la mia ammirazione incondizionata per questo incredibile giocatore. A distanza di anni, ancora non so il motivo per il quale The Genius abbia fatto quell’effetto su di me, ma sono sicuro che fosse amore sportivo totale: la “devozione” per un eroe del tennis, in questo caso, non si misura solo dalle gioie che le sue vittorie regalano, ma soprattutto dal “dolore” che le sue sconfitte procurano. Quella terribile catastrofe sportiva che fu la disfatta parigina con Ivan Lendl nel 1984, mi gettò talmente nello sconforto che ancora oggi ne detesto il ricordo e in verità sono già in ansia per quando dovrò occuparmene più avanti, nei prossimi articoli della rubrica.

Ma non ero solo nella mia fascinazione nei confronti del talento mancino americano. Spesso guardavo le partite del Mac con un mio coetaneo vicino di casa, ancor più “impallinato” di me. Sotto minaccia di rivelare all’amministratore che ero io a mettere i petardi nelle cassette delle lettere dei condomini, mi costrinse ad imparare una preghiera propiziatoria escogitata da quel mezzo delinquente, dice lui, da recitare prima degli incontri del nostro beniamino. Non volevo farlo perché in realtà tutto ciò mi pareva materia di confessione domenicale insieme alla storia dei petardi, tuttavia, per il timore di ritorsioni nei miei confronti da parte dei condomini infuriati, cedetti. E cosi prima di ogni incontro del nostro idolo, concentrati, assorti, ascetici, recitavamo la nostra invocazione che ancora ricordo alla perfezione:

Padre John che sei nei campi,
sia santificato il tuo Ace,
venga il tuo Grande Slam,
sia fatta la tua volontà
come Flushing Meadows così a Wimbledon.

Dacci oggi il nostro winner quotidiano,
e rimetti a noi i nostri unforced
come noi non li rimettiamo mai ai nostri avversari,
e non ci indurre al doppio fallo,
ma liberaci da Björn Borg e Ivan Lendl.
Game, set, match.

E dunque, cari amici di Tennis Circus, si chiude qui la prima parte delle mie fatiche “letterarie” dedicate al terribile mancino. Dalla prossima settimana ci addentreremo sempre più nel personaggio McEnroe, sperando che il mio supervisor non mi consigli nel frattempo di trovarmi un “blog” di tennis più vicino a casa. E giusto per inquadrare meglio il personaggio che andremo ad analizzare, nella remota eventualità che qualcuno arrivato or ora da Marte non lo conosca, lascio parlare direttamente lui e giudicate voi se non valga la pena di approfondire:

“Ho più talento io nel mio mignolo, di quanto ne abbia Ivan Lendl in tutto il suo corpo.”
Firmato: John Patrick McEnroe Jr.

A settimana prossima!

Roberto “ItalyFirst” Eusebi

 

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