La battaglia delle tre generazioni

Gli Australian Open 2018 sono solo un’altra tappa di una battaglia iniziata qualche anno fa; mai come oggi, però, le distanze sono così sottili e gli equilibri così fragili.

Il messaggio arrivato da Melbourne è forte e chiaro, la nuova generazione è sempre più determinata a prendere il controllo del circuito. Gli exploit di Hyeon Chung e di Kyle Edmund agli Australian Open sono solo le ultime due schermaglie di una battaglia che sta entrando sempre più nel vivo, una battaglia che, oltre a coinvolgere direttamente la vecchia guardia, rappresentata, al massimo del suo splendore, dai mitici Fab Four, sta mettendo a dura prova anche la resistenza di quella paradossale generazione di mezzo, fino a qualche anno fa troppo giovane e inesperta per contrastare i quattro fenomeni e ormai troppo vecchia per rappresentare una vera e credibile novità nel panorama del tennis mondiale.

La vittoria di Dimitrov alle ATP Finals sembrava poter rappresentare un punto di svolta per questa generazione, un’inaspettata piega degli eventi in grado di redimere un’intera classe di tennisti sì talentuosi, ma troppo spesso deludenti e incapaci di sopportare l’impalpabile peso delle aspettative, una possibilità di rinascita e di riscatto per i vari Goffin, Raonic, Nishikori, Thiem, eredi non riconosciuti e poco amati di una delle dinastie più splendenti della storia del tennis. Tuttavia, i primi appuntamenti ufficiali di questa stagione 2018 hanno inevitabilmente dimostrato che quella che, a prima vista, poteva apparire come la scintilla di un incendio rivoluzionario, ha finito per consumarsi in un effimero fuoco di paglia; a Brisbane i protagonisti assoluti non sono stati né il fumoso Dimitrov né il convalescente Raonic, la scena, infatti, è stata rubata da due talenti made in Australia, l’irriverente Nick Kyrgios, sempre più maturo e consapevole dei propri mezzi (così consapevole da essere tornato a casa con il trofeo sotto il braccio), e la sorpresa De Minaur, tenace e minuto come il suo idolo d’infanzia Hewitt.

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Agli Australian Open le cose non sono andate in maniera molto diversa; Dimitrov ha avuto una piccata reazione d’orgoglio in ottavi di finale, prendendosi la rivincita sul beniamino di casa Kyrgios, ma ha finito per cedere sotto i colpi potenti di un altro classe ’95, quel Kyle Edmund che mai, prima d’ora, era riuscito a battere un top 5 e che, con il successo ottenuto contro il sempre meno decifrabile bulgaro, ha raggiunto la sua prima semifinale Slam della carriera.

La sorpresa più eclatante, però, è arrivata per merito di un ventenne occhialuto coreano. Sulla Rod Laver Arena, infatti, Chung ha giocato una partita assolutamente perfetta e ha estromesso dal torneo il dodici volte campione Slam Novak Djokovic, non al meglio della forma dopo il rientro dall’infortunio al gomito. Più che il risultato in sé, però, ciò che ha veramente lasciato a bocca aperta gli addetti ai lavori è stato il modo in cui Chung ha avuto la meglio sul fenomeno serbo, sconfitto con le stesse armi che, per anni, sono state il suo marchio di fabbrica e l’incubo dei suoi avversari. Condizione fisica straripante, ritmo di gioco infernale, solidità mentale, attacco martellante e difesa ai limiti dell’umano, sono stati questi gli aspetti in cui il sudcoreano ha sovrastato Djokovic, quegli stessi aspetti che hanno reso Nole uno dei giocatori più dominanti della storia.
“Da piccolo cercavo di copiare Djokovic perché era il mio idolo”, sono state queste le parole che Chung, sempre timido e poco a suo agio davanti al microfono, ha pronunciato alla fine della partita; a fronte di una prestazione del genere viene naturale affermare che quella di ieri è stata una delle poche volte in cui una copia è risultata migliore dell’originale.

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La grande varietà e quantità di volti nuovi è un segnale più che eloquente della profondità e della ricchezza di una generazione che, a torto, è stata troppo spesso considerata, per usare un orribile, ma efficace, neologismo, “zverev-centrica”; al contrario, le difficoltà del tedesco (comprensibili per un ragazzo così giovane, trovatosi improvvisamente a dover reggere l’urto di pressioni obiettivamente sproporzionate) dovrebbero riportare l’attenzione di media e tifosi su un gruppo di giocatori che, unito, promette di restaurare una nuova età dell’oro del tennis mondiale, ma che, allo stesso tempo, non deve essere caricato di eccessive responsabilità.

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Kyrgios, Zverev, Shapovalov, Chung, Rublev, Tiafoe, solo per citarne alcuni, stanno già crescendo e maturando, ma devono essere lasciati liberi di sbagliare e di imparare dai propri errori; Federer, Nadal e Djokovic sono tennisti e uomini unici, leggende assolute di questo sport, ma anche loro, per raggiungere un tale livello, si sono dovuti migliorare giorno dopo giorno con il duro lavoro e la costante applicazione. Gioiamo, dunque, dei loro successi, supportiamoli nelle sconfitte, diventiamo loro tifosi, ma non commettiamo un’altra volta l’errore che è stato fatto con Dimitrov e i suoi compagni di sventure; un’altra lost generation sarebbe un danno enorme per il tennis e per lo sport in generale. Non esistono scorciatoie per raggiungere la gloria.

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