L’ambiguo e straordinario 2019 di Novak Djokovic

Da quando Djokovic è quello che i libri di storia conoscono, l'anno appena passato è stato il più strano. Ed aver vinto due Grand Slam in una stagione per nulla sgombra di ombre può renderlo fiero di sé, con la consapevolezza di dover allontanare però le incertezze.

Il 2020 si avvicina, e Novak Djokovic vi arriverà, pur avendo perso la vetta del ranking, da campione in carica all’Australian Open e a Wimbledon. Il Roland Garros non è andato per il meglio. A settembre poi l’infortunio al gomito gli ha impedito di giocarsi tutte le carte per la difesa dello Us Open. Il campione di Belgrado è riuscito però ad affermarsi nei suoi Slam “preferiti”: sono sette oramai i titoli a Melbourne (nessuno come lui), cinque quelli ai Championships. I Major in carriera sono 16, Federer rimane lontano a 20. Nadal riesce a tenere il vantaggio di tre alternandosi con lui nel dominio del 3 su 5. Con la nuova stagione parte ancora per vincere tutti i titoli più importanti. Sul 2019 appena chiuso rimangono tuttavia delle ombre che oggi proveremo ad analizzare.

Criticare la stagione, ridimensionare le conquiste di Novak Djokovic nel 2019 è impossibile. Anche se non lo fosse, il solo provarci sarebbe oltremodo ingiusto. Per superare la nostra crisi d’astinenza, quindi, l’intento è una ri-lettura di alcuni episodi dei suoi ultimi 12 mesi. Il 2019 ha portato risultati assolutamente pregevoli. E i traguardi, quando si va a caccia di record, contano probabilmente più di tutto. Ma rispetto alle grandiose annate precedenti della sua carriera, questa volta il viaggio che ha condotto verso i sorrisi più veri è stato ben differente. Il percorso ha quasi tradito le aspettative nel suo svolgersi, non tanto nella meta finale, è stato particolare e ambiguo rispetto al passato. Caratteristiche, queste ultime, che hanno messo in dubbio l’effettivo conseguimento di alcuni degli obiettivi prefissati. Alcuni dei quali, alla fine, non sono arrivati per davvero. Nessuno è perfetto, si sa, e tutti i Big 3 hanno avuto dei frangenti difficili quest’anno. Ma mentre quelli di Roger Federer possono essere più facilmente ricondotti all’età, e di quelli di Rafael Nadal, di natura fisica innanzitutto, si è già parlato, quelli di Djokovic sembrano più complessi da studiare. Perché rispetto ai due rivali la sua parabola è stata imprevedibile. Quando sembrava poter dominare incontrastato col serbatoio pieno di fiducia è mancato. E quando invece sembravamo dover accettare i suoi alti e bassi è tornato a portare l’asticella verso livelli apparentemente inarrivabili per tutti.

Dal nostro ragionamento va senz’altro escluso l’Australian Open 2019, dominato nella fase finale con tanto di sonora affermazione su Nadal, per la prima volta lasciato a zero nel computo dei set in una finale Slam. I primi interrogativi sono giunti sin dai primi due Masters 1000 della stagione, dove per tradizione un Djokovic fisicamente pronto ha sempre raccolto molto. Tra Indian Wells e Miami, tornei in cui era quasi doveroso aspettarselo protagonista, ha invece racimolato solamente un secondo turno ed un ottavo di finale. Più che i colpi e il tennis vero e proprio, centrale nella questione è il linguaggio del corpo di Djokovic, che da qui ha evidenziato i primi problemi. Se in California il clima da sempre avversario del serbo ha aiutato Philipp Kohlschreiber, infatti, in Florida è arrivata la seconda sconfitta consecutiva per mano di Roberto Bautista Agut. E il problema di Nole è stato quello di non riuscire mai a dare l’impressione di poter chiudere con agio la pratica avendo pur dominato il primo parziale per 6-1. Un calo quindi, col passare dei minuti, che sarà uno schema fisso di tutta la sua stagione. Federer insegna, col passare degli anni i Grand Slam hanno una sempre maggiore priorità rispetto anche ai Masters 1000. Delle due sconfitte però, a sorprendere di più sono state le parole del 32enne di Belgrado, che diceva di avere come assoluta priorità il Roland Garros. Una priorità certamente obbligatoria, dato che il serbo inseguiva la possibilità di vincere nuovamente quattro Slam consecutivi, seppur ancora a cavallo di due differenti stagioni. Ma comunque evidenziata in modo quasi impensabile da Djokovic. Senza peraltro usare mezzi termini, addirittura tre mesi prima del Major parigino e dopo due tornei disputati su una superficie diversa. Atteggiamento e scelta giustificate, si ripete, ma che col senno di poi potrebbero aver contribuito a mettere ulteriore pressione sulle sue spalle. Circostanza che in carriera, dal 2011 in poi ha sempre gestito da fuoriclasse, meno che proprio al Roland Garros. Oltre che la miracolosa vittoria di Federer di quell’anno, il serbo conta anche due finali perse avanti un set tra 2014 e 2015 e la sciagurata ed indimenticabile invasione del 2013, che lo privò dello scalpo quasi certo di Rafa Nadal nel quinto set. E così, tenendo presenti le sue stesse dichiarazioni, la sconfitta patita da Daniil Medvedev a Monte-Carlo è passata in secondo piano. Aggiudicandosi poi il Mutua Madrid Open, e fermandosi solo in finale a Roma, Djokovic sembrava pronto ad un cammino straordinario a Bois de Boulogne. Alla ricerca di quel salto sulla terra battuta di cui solo il miglior Nadal può pensare di fare meglio. Tutto sembrava dare ragione a lui, con una gestione che lo aveva portato a crescere gradualmente proprio in vista dell’appuntamento clou. Contro lo spagnolo poi, il set vinto quasi dal nulla in una finale altrimenti a senso unico, lasciava davvero ben sperare. Dopo le straordinarie fatiche contro Juan Martin Del Potro e Diego Schwartzman, pur a corto di energie aveva mostrato di poter piegare mentalmente l’iberico in un parziale equilibrato. Per la verità, il Roland Garros è stato davvero il miglior Slam giocato nella prima settimana da Djokovic. Un approccio convincente tanto da lanciarlo alla semifinale contro Dominic Thiem con zero set persi. Ma proprio quando lo si credeva favoritissimo per l’accesso in finale, viste anche le mille difficoltà di Thiem a Parigi quest’anno, ha in parte tradito le attese. Non per la sconfitta arrivata al sabato al quinto set, ma per il modo in cui questa si è concretizzata. Ed è ancora un fatto di body language, a partire dalla ventosa giornata di venerdì che l’ha visto scendere in campo quasi nauseato e senza quell’attitudine che l’ha sempre contraddistinto negli Slam dell’ultima decade. Lungo la strada di problemi possono essercene, ma pur nelle giornate non brillanti il campionissimo ritrovava la pace interiore. Deve essere l’avversario a prendersi la vittoria. Una qualità in cui soprattutto lui e Nadal non hanno mai avuto eguali. Thiem la partita se l’è guadagnata di certo, ma è stato un match in cui entrambi hanno avuto paura di vincere. Djokovic non è mai stato avanti nel punteggio e, cosa ancora ancora più “strana”, non ha mai lasciato la percezione di potercela fare sulle sue gambe, senza aiuti dell’avversario. Un avversario che nel terzo parziale ha concesso due sanguinose palle break nel decimo game. E poi nel quinto parziale non è riuscito a scrollarsi di dosso la tensione, facendosi recuperare per due volte un break di vantaggio. E dopo due recuperi del genere, con due match point annullati, Nole non ha avuto la forza di essere sé stesso. Perché in fondo, Nole senza killer instinct non è Nole. E in tal modo il Roland Garros è sfumato amaramente: punteggio finale di 6-2 3-6 7-5 5-7 7-5 per Thiem, sconfitto poi ancora in finale dal solito Nadal.

Djokovic Wimbledon 2019

È vero che aspettarsi il massimo in ogni torneo, per i Big 3, è sempre più difficile. Però loro stessi ci hanno abituato a credere di poter prendere il sopravvento in maniera stabile una volta superata la tempesta, sia nel singolo match che nella stagione. Un po’ come è accaduto a Rafa Nadal, che dagli Internazionali Bnl d’Italia ha vinto 38 delle 40 partite giocate fino a fine anno. Prima di Roma ne aveva perse 5 su 25, di cui 3 sulla sua terra battuta. Quanto al punire gli avversari che non chiudono la contesa, comunque, Nole si è ritrovato ben presto. E in un contesto e in una partita ben più importante, per tanti la migliore della storia. Come abbia controllato il tie-break della finale dopo l’8-7 40-15 quasi non sorprende, perché è una storia che abbiamo visto tantissime volte, anche se mai in una finale di Wimbledon. Eppure, prima di quel momento incredibile, il cammino di Djokovic aveva posto degli insoliti interrogativi. Non tanto nel set perso al terzo turno contro Hubert Hurkacz, né tanto meno nel primo set dei quarti contro David Goffin. Tra la semifinale e la finale, però, Djokovic è sembrato il più stanco, ancora ambiguo nelle sensazioni che il proprio corpo veicolava, almeno dalla tv. Contro Bautista Agut è stato costretto ad una partita di scambi interminabili, in cui a spingere meglio e di più è spesso stato lo spagnolo. Quando poi però ha colpito Bautista al primo momento opportuno vincendo agevolmente gli ultimi due set, Djokovic pareva pronto ad inserire il pilota automatico per la finale, per una partita di una costanza unica contro il miglior giocatore del mondo sui campi dell’All England Club. Da giovane, il serbo attraversava delle crisi di nervi e lo si poteva osservare mentre parlava da solo, come ancora fa il suo amico Andy Murray. E non poche volte lo si vedeva anche distruggere delle racchette, alle prese con le rotture prolungate proprie di un tennista inesperto. Quando poi le urla del giovane in lotta interiore sono diventare urla del carnefice che mette paura agli avversari, Djokovic è diventato quello che ora conosciamo. Ed è per questo che lo spettacolo visto a luglio sul Centre Court è ancora più grande di quello che si pensi. Una partita straordinaria di 4 ore e 57 minuti, in cui il più costante dei due in campo è stato un quasi 38enne, che alla fine si è arreso agli dei del tennis e a Novak Djokovic. Un Djokovic ambiguo come tutto il suo 2019, dai mille volti, come la ragazza che risolve la trama della serie tv Game of Thrones. Una versione del serbo mai vista prima nell’atteggiamento. Per cinque lunghe ore ha dovuto lottare contro il pubblico. Uno stadio intero a sostenere Federer contro un Djokovic mai in cerca di provocazioni, mai sicuro di voler sfidare il pubblico come in altre occasioni. Senza urlare a pieni polmoni nelle fasi più calde del match. Recitando la parte del Bjorn Borg di turno, uscendo dalla sua vera natura, che è più simile, a livello agonistico, a Cristiano Ronaldo e allo stesso Nadal. E se vogliamo, riuscire ad alzare il trofeo più importante del mondo tennistico in questa maniera, che non è la sua, non fa altro che accrescere la sua leggenda, certo propiziata da un Federer tutt’altro che glaciale sui match point. Perché a guardarlo dal teleschermo, in quest’ambiguità è sembrato perdersi in alcuni momenti. Nel secondo set, così come nel quarto, dopo aver vinto due tie-break da campione quale è, nell’istante in cui si poteva credere che tentasse di dare il colpo di grazia all’avversario, si è sciolto al primo break subito, ritrovandosi al quinto set. E per larghi tratti, fino a prima dei match point, oltre che meno armi sembrava avere molte meno energie di un tennista 6 anni più vecchio di lui. Alla fine, nonostante tutto, è riuscito però in ciò in cui aveva fallito il mese precedente contro Dominic Thiem: essere Novak Djokovic.

A dirla tutta, l’imprevedibilità è tornata a farla da padrone nella sua stagione proprio dopo Wimbledon. Un fattore che, manifestatosi da subito con i problemi al gomito nell’estate americana, non ha permesso di fare dei pronostici molto affidabili sull’ultima parte della sua stagione. Dopo la debacle contro Medvedev a Cincinnati, da campione in carica si è ritirato negli ottavi dello Us Open contro Stanislas Wawrinka. E la stampa immediatamente si è scatenata, addensando nubi oscure sul suo stato di forma. Già si (stra)parlava, addirittura di un stop forzato fino a fine anno, per recuperare completamente, rischiando anche di doversi sottoporre ad un intervento chirurgico. Un po’ a sorpresa, però, Djokovic è rientrato dominando in quel di Tokyo, Atp 500 vinto senza perdere alcun set. E pur sapendo di non aver affrontato esattamente i migliori tennisti del mondo, lo stesso campione di Belgrado si era detto felicissimo di un recupero così inaspettatamente rapido. La condizione poi, comunque, si è infatti rivelata nient’affatto smagliante. Di fronte al primo top player, Stefanos Tsitsipas, l’allora numero 1 del mondo è caduto nei quarti del Masters 1000 di Shanghai. Di nuovo uno stop in rimonta, e in maniera simile a quella di Miami, dopo un primo set giocato da marziano. Poi infatti una presenza emotiva e agonistica in campo piano piano destinata a non essere quella del miglior Djokovic eliminato per 3-6 7-5 6-3. Un mese e mezzo dopo, di sconfitta in rimonta ne arriverà un’altra, quella contro Thiem alle Atp Finals. Un match giocato su tutt’altro livello quello di Londra, in cui comunque, Nole è stato meno sicuro di sé. Di conseguenza anche meno produttivo rispetto all’avversario. Il calo, seppur meno netto rispetto alle rimonte precedenti e agli alti e bassi di Wimbledon, potrebbe essere stato tuttavia già allora frutto di un riacutizzarsi dei dolori al gomito. Una questione forse non completamente risolta. Scene con le sue smorfie di dolore si sono infatti viste nella successiva partita contro Federer e poi anche alle finali di Coppa Davis a Madrid. E pensare che alle Finals, dopo le clamorose performance di Parigi-Bercy era dato da tutti come il favorito al successo finale. Ma è stato un po’ tutto imprevedibile. Così tanto da togliergli la continuità necessaria per sottrarre soffiare il numero 1 di fine anno a Rafa Nadal. Lo spagnolo vince un titolo in meno di lui, ma raggiunge le semifinali in 10 dei 12 tornei giocati. A inizio 2020 il distacco sarà di 840 punti tra i due. La stagione di entrambi partirà il 19 dicembre con l’esibizione ad Abu Dhabi per poi proseguire con la prima edizione della Atp Cup. Pronosticare un’altra grande stagione per Djokovic resta comunque obbligatorio. Più difficile pensare che possa cannibalizzare la maggior parte dei titoli importanti come invece aveva lasciato presagire l’Australian Open 2019. A Melbourne però, il favorito potrebbe essere ancora lui. 

 

Djokovic AO 2019
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