L’erba: chi ci gioca come una volta?

Il tennis negli anni ’80 e ’90 proponeva all’appassionato un quadro più chiaro. Terraioli da una parte, erbivori dall’altra. In mezzo, nei tornei sul cemento, dei giocatori più versatili che si barcamenavano con una certa disinvoltura su tutte le superfici, magari senza essere vincenti, ma piazzandosi sempre bene nei tabelloni del globo.

Negli anni Zero del XXI secolo le cose sono cambiate. Anzi, è iniziato un processo di cambiamento che ha snobbato l’erba per produrre (passatemi il termine, ma di meglio non trovo) giocatori di grande potenza fisica, mediamente grezzi nel gioco di volo, dotati di un servizio molto solido e due fondamentali da fondo-campo in grado di procurare danni su qualsiasi superficie. Per molti, compreso chi vi scrive, è stato l’inizio di un periodo di noia tennistica che raggiungeva il suo climax nella seconda settimana di Wimbledon, ovvero quando i migliori giocatori (i suddetti) conquistavano in modo assoluto la ribalta, eliminando gli outsiders, talvolta ridotti al rango di comparsa.

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Se è vero, come è vero, che non era raro veder giocatori di classifica molto alta avventurarsi nelle qualificazioni dello Slam londinese e magari superarle, facendo capolino nel tabellone principale (ad esempio, in Italia, Mosè Navarra, che temo in pochi ricorderanno) beneficiando dell’assenza di tanti terraioli che, con classifica tra la 100esima e la 200esima posizione, preferivano restare al caldo europeo, lasciando il posto a giocatori di maggiore fantasia. Una sorta di “licenza”, un accordo tra gentiluomini, che preferivano riconoscere la propria scarsa propensione per il gioco sui prati e altri che invece sfruttavano questa finestra di notorietà.  Accadeva così che la prima settimana di Wimbledon offrisse match particolarmente interessanti, divertenti, che accanto alla curiosità di vedere all’opera giocatori semi-sconosciuti alla grande ribalta, offrivano spunti tecnici rimarchevoli, partite combattute ma in schermaglie che, non di rado, vedevano i due giocatori andare a rete entrambi contemporaneamente: ricordo un Leconte-Edberg di tal fatta, ma potrei sbagliare. Il dominio del servizio, un’erba tagliata con più benevolenza e, ribadisco, una fisicità non paragonabile a quella di 20\25 anni prima, consente ai tennisti contemporanei di impostare lunghi scambi da fondo campo, schermaglie divertenti come un gran premio di F1 dei bei tempi della Ferrari vincente, quando i sorpassi si vedevano sulla statale che portava al circuito, e basta.

Ma qualcosa è cambiato. In giro per il circuito hanno fatto capolino dei giocatori che “vedono” la rete, e lo fanno appena possibile. Non alludo a Feliciano Lopez e Radek Stepanek, che hanno provato con successo ad interpretare ancora il ruolo del tennista in grado di giocare bene ovunque, doppio compreso. Ma alla generazione di Alexander Dolgopolov, Dustin Brown, Nicolas Mahut, Dudi Sela, Sergiy Stakhovsky che offrono un tennis assolutamente godibile sui prati, proprio sulla scia di tennisti quali Lopez e Stepanek, cui vanno aggiunti Gilles Muller e Ivo Karlovic. Una generazione, ovviamente non anagraficamente intesa, che predica un tennis diverso dall’omologo power-play dominante. E per questo, qualcuno, nel board di Wimbledon ha pensato bene di dare un wild-card a Dustin Brown. Segno dei tempi che cambiano?

Tennisti come Richard Gasquet, Florian Mayer, lo stesso Andreas Seppi, Philip Kohlschreiber e Marcos Baghdatis, giusto per fare quattro nomi noti, sanno adattare il loro gioco molto bene ai prati, prendendo confidenza col back di rovescio, un colpo quasi scomparso nel tennis degli ultimi anni, se non in chiave difensiva, interpretandolo (quasi) in modo ortodosso per il gioco su erba. E non è un caso che si vede molto spesso anche il dritto giocato in back, lento, magari un po’ corto, per costringere l’avversario a scendere a piano terra per tentare di rimandarlo dall’altra parte, e in quei momenti, le manine più gentili vengono fuori. E compare anche qualche numero più consistente nella voce: “serve&volley”. E lo stesso Roger, abituato a giocare da fondo (ah, quel dannato 2008!) sta tornando sui suoi passi, facendosi vedere molto spesso a rete, complice l’anagrafe, certamente.

Certo, i nomi che ho fatto sono di primo piano ma non di assoluto pedigree, segno che il buon Pablo Cuevas in finale a Nottingham senza giocare uno straccio di voleè rappresenta la realtà ancora diffusa. Ma queste settimane passate sul verde dei prati ci restituiscono qualche segnale di un ritorno della categoria dell’erbivoro, andata quasi estinta negli ultimi anni: giocatori come Luke Saville e Marius Copil, ad esempio, rispondono presente proveniendo dalle qualificazioni, proponendo un tennis che rappresenta un compromesso tra il gioco classico su erba e il tennis contemporaneo. Vedremo dove potranno arrivare e se questa tendenza, ancora in nuce, avrà successo.

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