È difficile parlare di sport in questi giorni. Ma la verità è che bisogna farlo, perché solo la logica moderna dello sport-intrattenimento significa una festa al di fuori del tempo e del mondo, che di quest’ultimo se ne cura molto poco. Pur non essendo ricordato per articoli sul tennis, una delle leggende del giornalismo italiano, Manlio Cancogni, ha speso un’intera vita nel teorizzare e dimostrare su tutti giornali per cui ha lavorato l’equivalenza tra lo sport e la poesia. E se la poesia è cultura lo è anche lo sport, non solo per tutto l’impianto retorico che si lega allo sforzo che gli atleti fanno per raggiungere gli obiettivi, ma anche e soprattutto per l’impatto che ha sulle coscienze. Perché lo sport è, in quanto cultura, riflesso della contemporaneità, quando non addirittura reazione ad essa. È stato evasione, ma ancor di più è stato identificazione: con Jesse Owens ai Giochi di Berlino del 1936, con Tommie Smith e John Carlos in Messico nel 1968, e con Muhammad Ali durante la Guerra del Vietnam, per il quale “The Greatest” ha rifiutato la leva ed in seguito al quale non ha combattuto per tre anni. Anche il tennis ha i suoi gloriosi esempi: da Arthur Ashe in campo nel Sudafrica devastato dall’apartheid nel 1973 fino alla scelta recentissima della Wta di non giocare in Cina dopo le vicende riguardanti Shuai Peng. Ma non si possono dimenticare la battaglia per l’uguaglianza dei diritti delle donne nello sport condotta da Billie Jean King e le magliette rosse dell’Italia campione di Coppa Davis in Cile, nel 1976.
È difficile parlare di sport, ma bisogna farlo, perché lo sport in quanto cultura è influenzato ed influenza a sua volta il mondo circostante, lo cambia. Ironia della sorte, proprio nel giorno della terrificante invasione in Ucraina da parte dell’esercito russo, il 26enne moscovita Daniil Medvedev s’assicurava di diventare ufficialmente, lunedì 28 febbraio, il nuovo numero 1 della classifica Atp. Ad aiutarlo ci ha pensato il ceco Jiri Vesely, che sconfiggendo per la seconda volta in altrettanti scontri diretti Novak Djokovic (nei quarti del torneo di Dubai), ha posto fine ad un’era iniziata quasi 18 anni fa. Il 2 febbraio del 2004, il giorno dopo la vittoria all’Australian Open in finale contro Marat Safin, il 22enne Roger Federer diventava numero 1 del mondo, scavalcando Andy Roddick. Ci sarebbe rimasto per il periodo record di 237 settimane consecutive, prima dell’avvento e dell’alternanza con l’amico e rivale Rafael Nadal. Poi sarebbe arrivato Djokovic, il dominatore degli anni Dieci, nonostante la parentesi di 41 settimane in vetta di Andy Murray. In poco più di 18 anni, per 943 settimane consecutive, solo questi quattro giocatori hanno occupato il trono, dando vita al più duraturo dominio nella storia del tennis. Basti pensare che nei 18 anni precedenti, tra il 1986 ed il 2004, i giocatori diversi a salire in prima piazza erano stati ben 17.
Dopo 6601 giorni, almeno per la classifica, è iniziato il tennis post-Fab Four. Un’epoca che, avremmo pensato anni fa, sarebbe iniziata con Alexander Zverev o Dominic Thiem, o al massimo Stefanos Tsitsipas. Invece, prima di loro, ce l’ha fatta Medvedev, il più eterodosso di tutti, tecnicamente e caratterialmente. Col suo stile atipico, la schiena alle volte cifotica e i colpi che sembrano variare più volte nella loro esecuzione all’interno della stessa partita, nessuno poteva inizialmente immaginarlo davanti a tutti un giorno. D’altronde, arrivato in Top-100 nel novembre del 2016, è rimasto per quasi due anni fuori dai primi 50, fino all’estate del 2018: “Stacca troppo spesso la spina e manca di potenza”, si diceva di lui. Ma il rovescio è sempre stato di ottimo livello (con buona pace dei tecnici puristi) e con i titoli a Winston-Salem e Tokyo è arrivata anche la giusta confidenza. Dei clamorosi progressi in termini di tenuta fisica, Novak Djokovic è stato tra i primi ad accorgersene: sembrava folle la scelta del russo di sfidare il numero 1 sulle diagonali e sulla resistenza, agli ottavi dell’Australian Open 2019. Eppure quella si è poi rivelata la partita più dura per il numero 1, che andava verso la settima Norman Brookes Challenge Cup. Delle sue capacità al servizio, forse tutti ce ne siamo accorti quando già era vicinissimo ai massimi livelli. Una sera d’estate, dopo aver perso le finali a Washington e Toronto, Medvedev ha cominciato a tirare prima e seconda di servizio al massimo fino a sconfiggere proprio Djokovic, in semifinale a Cincinnati. Quel trionfo in Ohio, dopo la finale contro David Goffin, è stato il vero principio della sua scalata. E quando poche settimane dopo ha rischiato di rimontare Rafa Nadal in finale allo Us Open tutti hanno cominciato ad indicarlo come papabile numero 1.
Due anni e mezzo dopo quell’obiettivo sussurrato è diventato realtà. Tuttavia, insistendo su una certa demonizzazione del suo stile di gioco e di alcuni suoi atteggiamenti, il grande pubblico fatica ad accettarlo come re della classifica Atp. Ancor di più i tifosi più beceri delle tre leggende. Chi parteggia per Federer cerca quasi stucchevolmente la purezza, chi sostiene Djokovic invece pone l’accento sul fatto che – senza periodo di stop dovuto ai problemi col vaccino – non ci sarebbe stato alcun sorpasso. Per ultimi, poi, i rinvigoriti tifosi di Nadal che si servono delle due recenti vittorie per proclamare la manifesta superiorità dello spagnolo. Se con i tifosi dello svizzero si va su un terreno ideologico, è più facile rispondere alle altre due fazioni, sebbene meriterebbero il nostro disinteresse. I “se” e i “ma” relativi a Djokovic non portano – in ambito sportivo – da nessuna parte. Il primato del ragazzo di Belgrado sarebbe rimasto intatto sicuramente per qualche altra settimana con una difesa anche solo parziale dei 2000 punti dell’Open d’Australia. Ma sta di fatto che anche il congelamento della classifiche ha penalizzato l’ascesa di Medvedev dopo la pandemia. Il campione degli Us Open, inoltre, ha mostrato una continuità inarrivabile, che non può più appartenere alla generazione dei veterani, per cui anche i Masters 1000 sembrano ora solamente dei tornei preparatori per gli Slam. Quanto ai “nadaliani”, bisogna evidenziare che è una brutta abitudine quella di sovrapporre, già da marzo, la Race al ranking effettivo: la prima serve per capire le tendenze, e forse ai bookmakers per le quote; il secondo invece si costruisce con pazienza, la stessa che si è richiesta al nuovo numero 1 nell’ultimo periodo (e che è di tutti i campioni, ma non dei loro tifosi).
Per una macabra coincidenza, Medvedev è diventato numero 1 proprio negli stessi istanti in cui il paese che rappresenterebbe ha riportato la guerra in Europa. E a ragione si usa il condizionale, perché proprio in un post di due gironi fa il tennista russo ha invocato la pace per tutti i bambini, per evitare che i loro sogni vengano spezzati, così come la loro “fiducia nel mondo”. Sulla stessa linea l’amico Andrey Rublev, che ha parlato di quanto sia difficile oggi per lui pensare al tennis, pur felice per la vittoria nel torneo di Dubai. Anastasija Pavlyuchenkova invece ha espresso la propria amarezza ed una certa vergogna nella situazione in cui si trova il paese che aveva sempre orgogliosamente rappresentato prima di oggi. Vorremmo parlare solo di campo, e di come la posizione di Medvedev sia già a rischio, perché nonostante la quasi sicura assenza di Djokovic nei Masters 1000 di Indian Wells e Miami, i punti che separano i due giocatori sono solamente 150. Medvedev, al contrario del rivale serbo, dovrà inoltre difendere i punti dello scorso anno (anche se questi verranno scalati in settimane differenti). Però anche la situazione politica (ed il modo in cui a questo sta reagendo lo sport) che potrebbe influenzare la difesa del gradino più alto per Medvedev. Dapprima sono state alcune giocatrici ucraine, su tutte la Svitolina, a chiedere ai vertici del tennis una presa di posizione contro la guerra in Ucraina. Ma ieri, dopo la presa di posizione di Eurolega di basket, di FIFA e UEFA contro nazionale e club russi, si è fatto sentire anche il CIO. Il comunicato del comitato esecutivo è quasi perentorio: “Le Federazioni Sportive Internazionali e gli organizzatori di eventi sportivi non invitino o consentano la partecipazione di atleti e funzionari russi e bielorussi alle competizioni internazionali a causa della violazione della Tregua Olimpica da parte del governo russo e del governo della Bielorussia. I cittadini russi o bielorussi, siano essi atleti individuali o facenti parte di una squadra, dovrebbero essere accettati solo come atleti neutrali o squadre neutrali. Non devono essere visualizzati simboli, colori, bandiere o inni nazionali”. Bisogna ora capire se la partecipazione degli atleti e delle atlete russe è a rischio o si potrà effettivamente provvedere a non esporre ogni simbolo della Russia così da non far pagare le conseguenze delle scellerate decisioni di un governo a dei singoli dimostratisi peraltro critici nei confronti degli ultimi avvenimenti.