Paul Annacone, nato a Southampton, Stati Uniti, nel 1963, è certamente tra gli allenatori più importanti e influenti degli ultimi 15 anni.
Dopo essere stato un tennista di ottimo livello (best-ranking di n. 12 e quarti di finale raggiunti a Wimbledon nel 1984), ha allenato top-player come Pete Sampras e Roger Federer, ma ha anche lavorato come consulente per la USTA, la LTA e Tennis Australia, dedicandosi alla formazione dei più giovani. Il magazine statunitense Tennis.com gli ha fatto qualche domanda sul mestiere di coach e lui, disponibile come sempre, ha fornito risposte molto interessanti.
Qual è la differenza tra essere coach di un top-player come Roger Federer o Pete Sampras, e un giovane tennista?
I tennisti pro affermati, che hanno anni alle spalle nel tour, hanno ormai abitudini e stili di gioco molto difficili da modificare. Per questo molto spesso si hanno molte più difficoltà nel perfezionare questi giocatori, i quali ormai hanno imparato il loro tennis, con i suoi pregi e i suoi difetti. Per quanto riguarda i giocatori più giovani, invece, si possono ancora apporre sostanziali modifiche nel loro gioco e possono essere plasmati più in fretta. E’ vero, dunque, che per quanto riguarda i giocatori maturi i miglioramenti che si possono verificare sono minimi – ma spesso questi piccoli e sottili cambiamenti nel momento giusto possono dare benefici enormi alla carriera di un giocatore.
Qual è la chiave per essere un allenatore particolarmente efficace? Tu come hai imparato?
Io penso che dipenda molto dalla propria personalità, non esiste un segreto valido per tutti: è questa, a mio parere, la cosa più interessante nel tennis.
Se si guarda, invece, agli sport di squadra degli Stati Uniti, i diversi team sono conformi alla filosofia di un allenatore; se si guarda, per esempio, a qualcuno come Gregg Popovich, che allena a San Antonio, si scopre che ha un metodo e una filosofia molto precisi. che ha una certa filosofia. Mike Krzyzewski nel basket, Nick Saban nel calcio, hanno visioni molto chiare e differenti.
Nel tennis, invece, nel rapporto con i giocatori professionisti, i coach devono avere sì visioni chiare, ma soprattutto sapere come metterle in pratica nel migliore dei modi, farle capire e adattarle al singolo giocatore che stai allenando, con le sue caratteristiche e le sue peculiarità. È un po’ diverso.
Quali sono stati gli allenatori che più hanno influenzato la tua carriera e il tuo metodo di insegnamento?
In primis, il mio primo allenatore, Whitey Joslin. Mi ha allenato dagli 8 ai 14 anni circa e in seguito mi ha aiutato nella creazione della mia fondazione di tennis. Quando avevo 13 o 14, sono andato a Nick Bollettieri per quasi quattro anni. E’ lì che avvenne la mia evoluzione, e passai dall’imparare a colpire una palla all’apprendimento di una vera tecnica di gioco. E poi Mike De Palmer Sr., il mio allenatore presso l’Università del Tennessee. Ha davvero curato la mia maturazione dal circuito juniores ai professionisti e poi mi ha aiutato nel circuito pro per la maggior parte della mia carriera. Infine mio fratello, Steve, che ha viaggiato con me e mi ha allenato dai primi anni del college fino al periodo da professionista.
Pensi che in futuro si svilupperanno figure di coach specializzate nel tennis pro, come quello per il servizio e un altro che aiuta a migliorare la strategia?
Può darsi, e penso che possa essere utile, ma può anche essere un po’ pericoloso. Sono un grande sostenitore della semplicità e di un metodo unificato, soprattutto nel tennis. Un tennista può rivolgersi a più professionisti, basta che non perda i punti di riferimento e non vada in confusione: l’ultima cosa che un giocatore di tennis si può permettere di avere è una mente confusa.
Che importanza ha la fiducia nel tennis? Come spieghi che spesso anche i più grandi campioni possano avere momenti negativi a livello mentale?
Lo vedete in ogni sport. Non importa quanto sei grande o preparato, ogni giocatori ha momenti positivi e negativi. Nel tennis, non ci si può mai nascondere, perché ogni giocatore è da solo in campo: se c’è una debolezza, se c’è una mancanza di fiducia in qualcosa, non c’è nessun posto dove andare. I giocatori più forti e vincenti sono le persone che non perdono che fiducia in se stessi. Che uniscono l’incredibile talento a una forza d’animo smisurata che li aiuta nei momenti ‘no’. Sono quelli che, quando tutti gli altri sono nel panico, si concentrano solo sul loro gioco, su quello che stanno per fare.
Che cosa ti ha insegnato Nick Bollettieri riguardo al tennis e al ruolo di coach? Quando eri tennista, il tuo stile non era in linea con il gioco normalmente espresso da chi usciva dalla sua Accademia…
In realtà, fin da piccolo sono cresciuto come giocatore da fondo. Quando però ho iniziato a venire in avanti, Nick ha iniziato a spingermi sotto rete. Mi diceva: “Porta il tuo culo verso la rete, Paul!”. Nick è uno dei miei più cari amici; ha un’enorme passione, ama quello che fa. Penso che la cosa più importante che Nick mi ha insegnato in tenera età siano state il concetto di disciplina e di chiarezza. Mi fece capire che si trattava tutto di buone abitudini, formate dalla passione e dall’attenzione verso i propri obiettivi. Lui non perde mai tempo e ha creato un ambiente intollerante alle cattive abitudini.