Specie in questo momento storico poco felice -è un eufemismo-, ci sono mestieri particolarmente fortunati, i quali godono cioè di situazioni invero favorevoli: beato chi si trova in un frangente del genere, ha su di sé tutta l’invidia dei comuni mortali (oltre che, ca va sans dire, di quegli sventurati che un lavoro quale che sia non ce l’hanno più…). Il sottoscritto galleggia nella categoria dei rosiconi di cui sopra, e l’oggetto dei suoi sguardi in cagnesco ha un nome ed un cognome ben precisi: si chiama Riccardo Piatti, ed ho il sospetto che, a chi legge queste strampalate elucubrazioni, non sia per nulla ignoto… Già, è proprio lui, l’allenatore di Jannik Sinner – il fenomeno cioè che ha appena chiuso il disgraziato 2020 sotto le più rosee prospettive di un futuro radioso assai: e futuro prossimo, leggi 2021, non certo tra un lustro o giù di lì ! -. L’abbiamo buttata sul paradossale, l’avrete capito, ma il fatto (indubitabile) è che Riccardino da Como si ritrova felicemente fra le mani una gemma splendente, di quelle che ti capitano una sola volta nella vita: oddio, per qualche tempo ha maneggiato con cura pure un giovanissimo Novak Djokovic, che poi è diventato Nole con tutti gli annessi e connessi del caso. Ma la questione rafforza, sostanzialmente, il concetto di partenza: quando uno nasce con la camicia…
Fuor di metafora: il ragazzo con le lentiggini sta diventando un crack anche, se non soprattutto, grazie alle attenzioni che gli dedica il Maestro sin dall’età di 14 anni, e questo -tornando seri- non possiamo né vogliamo ignorarlo. Miglioramenti costanti dal punto di vista tecnico, lavoro duro finalizzato ad essere sempre più solido sul campo di gioco, sotto una guida esperta, attenta, illuminata addirittura: ed ecco che il 19enne approda alla sua prima finale Atp dopo aver fatto fuori in maniera irrisoria, quasi irridente, fior di giocatori, addirittura portandola a casa contro un Pospisil che ha lottato strenuamente rendendogli la vita dura assai. Ma invano per il malcapitato canadese, che pure avrebbe venduto la madre pur di alzare il proprio -pure per lui- primo trofeo.
Ha meriti enormi insomma Piatti nella crescita del virgulto: per averne intravisto le potenzialità incredibili quando era poco più che un bambino, per averlo coltivato da par suo come un fiore prezioso, per averlo aperto… al mondo con la più opportuna circospezione (scegliendo il percorso giusto, ad esempio con il salto a piè pari del circuito Junior, per consentirgli di ‘arrivare’ nei modi e nei tempi più favorevoli)… Tutte cose di cui il tecnico potrebbe giustamente vantarsi -e non lo fa, perché è abituato a stare in seconda fila rispetto al protagonista, e perché sa che nonostante tutto la strada è ancora in salita-. Tuttavia c’è un aspetto per il quale, esagerando d’accordo, riteniamo il 62enne lariano letteralmente baciato in fronte dalla buona sorte nel suo compito di mentore illuminato: l’aspetto mentale del proprio pupillo, il modo in cui gestisce le proprie emozioni sul campo, l’atteggiamento che tiene dinanzi alle difficoltà che l’avversario può proporgli… In una parola, che tutto ciò riassume, la famosa ‘testa’.
Già, proprio quella che nel boy altoatesino -è ancora tale, non dimentichiamolo- finisce ogni volta per stupire: una mentalità da 30enne (freddezza nell’affrontare le situazioni, quasi sfruttando al massimo un’esperienza… che non ha !) in un corpo da 20enne, cioè forte, resistente, reattivo -e aggiungo, con grossi margini di miglioramento ancora: fisiologici, e da raggiungere attraverso il lavoro per la parte strettamente atletica-. Questa è una dote, incommensurabile specie nel tennis, con la quale nasci: la puoi perfezionare col tempo, migliorarla addirittura, ma se non possiedi la base hai poche speranze di andar lontano, per quanto ti sforzi. Un carattere ed un’applicazione mentale tipicamente ‘tedeschi’ insomma, secondo una espressione che per il prodigio nato al di qua delle Alpi si utilizza spesso, e che un suo fondo di verità lo possiede, in qualche modo: certo, non è che allora ogni crucco -con rispetto parlando- che ci provi diventerà una stella del tennis, sarebbe un ragionamento scioccamente semplicistico…
Ma sarà un caso, esiste un bel tipo con 20 anni di più quanto ad età, e pur esso di ceppo teutonico -per quanto proveniente da altra nazione che comunque gravita in quell’area geografica-, che della ‘testa’ ha fatto un’arma impropria (assieme a tutto il resto) allo scopo di imporre il proprio dominio, almeno sino a quando si sono affacciati sulla scena un paio di contendenti che sotto l’aspetto mentale nulla avevano da invidiargli. Sì, parliamo di king Roger: quando il resto della concorrenza gli era a distanza siderale, giocava la sua partita tranquillo, spesso senza strafare, tenendo costantemente sotto controllo la situazione. E magari facendo far pure bella figura a quello di là della rete, indotto legittimamente a pensare “beh, il diavolo non è poi così brutto come lo dipingono”… Salvo poi piazzare -quel diavolo- il break chirurgico, e risolvere la questione in un battibaleno.
Avete visto Jannik nella sua cavalcata bulgara? Personalmente ho avuto netta l’impressione di un dèja-vu, specie nella semifinale contro l’osticissimo Mannarino, quando ha traccheggiato nei due sets sino al momento fatidico di assestare la zampata mortifera: né prima né dopo, ma esattamente al momento giusto. Senza smania o alterazione, nessun capello fuori posto (ed è un’impresa con quella zazzera, che per fortuna negli ultimi tempi pare aver cominciato a conoscere timidamente le forbici di un buon barbiere)… E tutto ad un tratto, d’improvviso, il flash si è trasformato in visione nitida: ma sì perbacco, è proprio come ‘quel’ Federer ! La considerazione sgorgata prepotente, lo riconosco, mi inquieta leggermente: non nutrirò -nutriremo- aspettative eccessive su questo ragazzone dall’aria timida, nel… blasfemo paragone? Può essere. Ma anche no. Culliamoci in tale dubbio amletico, che ora è comunque dolce e piacevole: domani è un altro giorno…
Nota a margine: l’atto conclusivo del torneo, felicemente risoltosi per l’azzurro, ha finito col costituire una probante conferma alla nostra sensazione. L’ha vinta di testa cioè, aspettando con pazienza che la buriana (dentro di sé !) passasse, riattaccando i fili del proprio congegno mentale che era andato in cortocircuito, quando con un set ed un break di vantaggio inconsapevolmente aveva accarezzato l’idea di essere sul rettilineo conclusivo. Non è un computer sempre e comunque insomma, e meno male vivaddio: ma quando serve sul serio, lo è. Senza se e senza ma.