Da poche settimane si è conclusa la nuova edizione della Coppa Davis, che ha coronato la Spagna campione del mondo per la sesta volta in 20 anni. Negli ultimi due decenni infatti, la Roja ha portato a casa l’Insalatiera negli anni 2000, 2004, 2008, 2009, 2011 e, appunto, 2019, confermandosi come la nazione più dominante nel tennis del XXI Secolo, considerando anche le altre due finali raggiunte. 6 su 20, record? No, perché se osserviamo l’albo d’oro della coppa del mondo, ci rendiamo conto di come in questi anni la grande assente sia stata la squadra più titolata di sempre in Davis, gli USA, capaci di issarsi per 32 volte sul tetto del mondo dal 1900 (anno di creazione del torneo) ad oggi.
E proprio gli Stati Uniti, nel ventennio ’68-’87, disputarono 11 finali vincendo 9 titoli. Impressionante. La scuola americana è riuscita a crescere e forgiare generazioni e generazioni di campioni che hanno letteralmente dominato non solo la Davis, ma l’intero tour ATP. L’ultima finale raggiunta nella competizione del mondo a squadre risale ormai al 2007, quando a vincerla furono i fratelli Bob e Mike Bryan, James Blake e l’ultimo campione Slam statunitense, Andy Roddick (US Open 2003), nonché ultimo n.1 del mondo americano. Da quell’anno in poi il miglior risultato raggiunto dalla squadra a stelle e strisce è stata la semifinale.
Questi scarsi risultati in coppa del mondo trovano riscontro, ovviamente, anche nel tour ATP, in cui nessun americano è riuscito a raggiungere la finale negli ultimi 16 anni. Ciò che quindi manca veramente agli Stati Uniti è una generazione di fenomeni, di campioni, come quelli che aveva negli anni ’90 di Michael Chang, in cui gli USA si presentavano in Davis con giocatori del calibro di Pete Sampras, Andre Agassi, Jim Courier e, per l’appunto, Chang stesso. Tutti campioni Slam e tre su quattro ex n.1 del mondo (Chang ex n.2). E proprio Chang, in un’intervista rilasciata giorni mesi fa, spiega come “non sarebbe giusto confrontare l’attuale generazione con la nostra” e come le alte aspettative che nutre il mondo tennistico americano di certo non aiutino i giovani che, schiacciati da troppe pressioni, non riescono ad emergere e si “bruciano” già negli anni da juniores.
Gli attuali giocatori americani come Isner, Querrey, Sock, Fritz o Tiafoe, sono dei buoni giocatori che hanno raggiunto discreti risultati negli ultimi anni, ma nessuno si è mostrato veramente all’altezza dei predecessori, vincendo tornei su tornei e raggiungendo i vertici del ranking ATP. E, forse, lo scarso successo del tennis americano sta anche nell’assenza di un vero campione, di un giocatore che possa ergersi a leader di un intero movimento e spingere i giovani ad avvicinarsi a questo sport e migliorarsi sempre di più. I ragazzi cresciuti negli anni ’90 avevano da ammirare squadre e giocatori capaci non solo di vincere titoli, ma anche di ispirare, mentre oggi gli USA escono ai gironi disputando una Davis piuttosto anonima e difficilmente sono rappresentati costantemente da un top 10 che si conferma tra i migliori del mondo, nonostante la scuola americana rimanga sempre una delle migliori (se non la migliore) in assoluto.
Probabilmente, a tutto ciò va anche aggiunta una certa carenza di “materia prima”, ovvero di talenti veri e propri, di fenomeni, su cui lavorare per portarli all’esplosione nel circuito maggiore. Di gente, insomma, che abbia le stimmate del predestinato. Ciò che quindi devono avere i fans americani è la pazienza. La pazienza di aspettare l’arrivo di una nuova generazione, capace di riportare in alto la bandiera a stelle e strisce e ricalcare le gesta dei campioni del passato. Omnia cum tempore.
Di David Carrozzo
1 comment
Bell’articolo e buona fortuna agli Stati Uniti