Da tempo lo sport che tanto amiamo ha manifestato la impellente necessità di un profondo rinnovamento che sia in grado di renderlo accattivante per un pubblico sempre più ampio e che sappia attualizzare e modernizzare una cultura di antichissima tradizione come quella tennistica.
Pressione in tal senso, oltre che da parte delle maggiori emittenti televisive, è stata fatta da moltissimi giocatori, soprattutto da quelli che godono di maggiore fama e che possono pertanto sperare di ottenere maggiore considerazione; svariate volte ci siamo difatti trovati a riportare dichiarazioni pronunciate nelle interviste post match da tennisti e tenniste che, talvolta mossi dal risentimento per una sconfitta, lamentavano il bisogno di rivedere alcune delle regole che da decenni oramai normano lo svolgimento delle partite.
Tale spinta centrifuga si è fatta sempre più insistente soprattutto in relazione ai tornei del Grande Slam, i quali tornei, in virtù della loro lunghissima e nobile tradizione, si mostrano in molti casi restii al cambiamento, perpetrando norme e precetti oramai invisi a giocatori e giocatrici, oltre che a molti fra gli addetti ai lavori.
Molto ad esempio è stato scritto circa la necessità che gli altri Slam seguano il corso segnato dagli US Open, introducendo il tiebreak al quinto set, esigenze riemersa con prepotenza in occasione dell’ultima edizione del torneo di Wimbledon (qualcuno ha detto Isner-Anderson?); allo stesso modo fiumi di parole sono stati spesi circa un’altra questione in tal senso scottante, ovverosia la volontà di liberalizzare il ricorso al cosiddetto coaching, liberalizzazione fra l’altro già introdotta a livello di circuito femminile WTA. Inutile negare come i fatti verificatisi in occasione della finale femminile dell’ultima edizione degli US Open abbiano catalizzato il processo di introduzione di tal nuova regolamentazione, spingendo molti fra coloro i quali godono di potere e competenza in materia ad adoperarsi in tal senso.
Ecco allora che il direttore degli Open d’Australia Creig Riley, in occasione della presentazione della ventura edizione del torneo da lui diretto, ha annunciato una prima apertura alla legalizzazione del coaching, affermando quanto segue: “Vogliamo valutare l’impatto derivante da un’eventuale implementazione di una regola che consenta di ricorrere al coaching, quindi continueremo ad applicare in fase sperimentale questa regola nel torneo juniores e nelle fasi di qualificazione per il tabellone principale“; non trattasi certo di una definitiva ammissione della volontà di una imminente applicazione di tale norma, quanto piuttosto di una parziale apertura; Riley ha tuttavia proseguito così “Parleremo con i direttori degli altri Grand Slam durante le prossime otto settimane, così come con i rappresentanti di tutte le parti in causa, al fine di valutare bene cosa comporterebbe l’approvazione di questa misura in futuro“.
Meno cauto e scettico si è invece dimostrata la stella del tennis australiano, l’ex doppista Todd Woodbridge, il quale ha sostenuto tale tesi ai microfoni di The Age, sostenendo quanto riportato: “Dovremmo permettere il ricorso al coaching per i garantire il bel tennis, ma è necessario soprattutto fare uno sforzo reale per fare in modo che in ogni torneo vi sia coerenza interna“; Woodbridge ha poi aggiunto “Io sono un tradizionalista, e mi piace l’idea della partita di tennis come una battaglia combattuta faccia a faccia, senza intermediari, ma al tempo stesso ho anche provato l’ebbrezza della Cup Davis, dove esiste la figura del capitano che consiglia; dobbiamo quindi evitare situazioni come quella verificatasi agli US Open (il caso Williams ndr), perché non penso che sia opportuno considerare anche quello che succede fuori dal campo, perché così facendo potrebbe essere valutato come un caso di coaching anche un applauso. Penso quindi che dovremmo cogliere l’occasione per unificare i criteri e risolvere questo problema, liberalizzando il ricorso al coaching“.
L’ex tennista australiano si è espresso poi in merito ad un’ulteriore questione critica, ovverosia l’incoerenza esistente in termini di regolamento fra il circuito ATP e i tornei dello Slam, incoerenza più volte sottolineata da molti maestranti della racchetta. “La cosa più frustrante per i giocatori è l’avere regole diverse in ogni torneo. Inoltre, tale incoerenza può portare nell’applicazione del regolamento a problemi di interpretazione e quindi all’applicare in ultima analisi di criteri soggettivi” ha sostenuto Woodbridge.
Chiara pare quindi la volontà dei personaggi chiave per l’organizzazione dell’Open d’Australia nell’introdurre importanti innovazioni, innovazione che andrebbero a sommarsi alle novità già previste per l’edizione 2019 del torneo, quali l’introduzione dello shot clock, dell’occhio di falco anche sul campo 16, di un nuovo sistema di rilevamento delle temperature e delle condizioni meteorologiche che permetterà di prendere decisioni tempestive in merito all’eventuale rinvio delle partite, o ancora l’aumento del 10% del prize money.
Un dinamismo ed una propensione al cambiamento che sono sicuramente un buon segnale per il mondo del tennis, e che si spera possano essere presto manifestati anche da altri fra i maggiori tornei.
E voi cosa ne pensate? Siete favorevoli al cambiamento o vi ritenete annoverabili alla schiera dei tradizionalisti e ritenete inutili tali revisioni del regolamento? Fatecelo sapere nei commenti.