Le prime tracce di tennis in Russia compaiono verso il 1860 quando a San Pietroburgo vede la luce il San Pietroburgo Cricket Club. Da lì a poco viene introdotto il gioco del lawn tennis; le cui prime menzioni sono verificabili tra le pagine di Anna Karenina, di Lev Tolstoj, pubblicato a puntate tra il 1873 e il 1877. Il grande romanziere stesso era un grande appassionato al punto da farsi costruire un campo in erba nella sua tenuta di Jasnaja Poljana. Introdotto tramite diplomatici e studenti britannici, il tennis venne subito apprezzato dai russi in quanto univa in se’ componenti eleganti ma, allo stesso tempo, sollecitava l’indole competitiva di chi lo praticava. Fu così che nel 1888 venne fondato il primo Circolo Tennis a San Pietroburgo, il Lawn Tennis Club. Verso la fine dell‘800 il lawn tennis si diffuse in diverse città della Russia; da Mosca a Kiev, da Odessa a Taganrog.
Quasi vent’anni dopo, nell’estate del 1907 venne organizzato il primo torneo in Russia al quale si iscrissero 65 giocatori. A vincere fu lo scrittore inglese Frederick Payn in finale su Georg von Franckenstein; un diplomatico austriaco. Nel mese di agosto, Payn pubblicò una recensione del torneo sulla rivista britannica Law Tennis a Bradminton e le prime righe dell’articolo spiegano come «il Lawn Tennis Club di San Pietroburgo si trova nel mezzo di un bosco su un’isola del fiume Neva. I campi sono molto veloci e simili a quelli di Bad Homburg, seppure un po’ troppo sabbiosi, al punto che vicino alla rete ci si deve esibire in movimenti come se si stesse pattinando. Il torneo è stato giocato nell’arco di quattro pomeriggi, in eccellenti condizioni climatiche fino al giorno della finale, quando una pioggia battente iniziata alle 13 ha impedito il gioco per diverse ore. Correva il giorno 31 luglio ma, mi è stato spiegato, secondo il calendario russo, era il 30 giugno».
Il passo successivo avviene l’8 giugno del 1908 quando la All Russian Union of Lawn Tennis Club viene ufficialmente iscritta nel registro delle Società di San Pietroburgo, al n.265. La più antica Associazione Sportiva della Russia vede come fondatore e primo Presidente colui che si rivelerà essere uno degli uomini più importanti dello sport russo, Arthur Davidovich McPherson, una figura basilare per comprendere l’evoluzione del tennis in Russia. Figlio di Murdoch MacPherson, nativo di Perth, in Scozia, ed emigrato in Russia verso il 1830. Murdoch MacPherson era un ingegnere civile nonché proprietario di un cantiere navale sul fiume Clyde a servizio della famiglia Imperiale. Intorno al 1850, ha inoltre fondato la Iron Works e la Shipbuilding Yard, quest’ultima in società con un residente inglese. Nel 1841, Murdoch sposò Julia Elizabeth Maxwell, nativa di Nithsdale nel sud della Scozia ma trasferitasi a San Pietroburgo con i suoi genitori molti anni prima. I due ebbero quindici figli, dei quali sopravvissero cinque maschi e cinque femmine. Uno di loro era Arthur David MacPherson, nato il 22 febbraio 1842 a San Pietroburgo, ma battezzato solo nel dicembre 1843 nella Cappellania britannica della città. Nel 1907 Arthur ha contribuito a organizzare il primo torneo disputato in Russia e, diventato Presidente della Federazione Tennis, ha fatto sì che alcuni giocatori russi partecipassero ai Giochi Olimpici di Stoccolma nel 1912. Vanno riconosciuti a McPherson non pochi meriti come ad esempio far figurare la Russia tra le 17 nazioni invitate quando nel 1913 a Parigi venne costituita la “Lawn Tennis Association International”. Diventato Presidente anche della San Pietroburgo Football League e dell’Arrow Boat Club, nel 1914 lo Zar Nicola II, con cui pare fosse solito scambiarsi libri pregiati, lo ha fregiato del titolo dell’Ordine di San Stanislao. La Rivoluzione d’Ottobreoltre a provocare un brusco stop al movimento tennistico, vide Arthur MacPherson vittima di un arresto da parte dei bolscevichi, come scrisse il Times «per nessun altro motivo se non che stava lavorando per il soccorso della colonia britannica a San Pietroburgo». Deportato a Mosca, nell’autunno del 1919 Arthur McPherson morì di febbre tifoidea. Tre soldati britannici che avevano ottenuto il permesso di cercarlo, ne rinvennero le spoglie in una cella della prigione ammassato insieme ad altri quaranta cadaveri. Il riconoscimento venne accertato tramite un bracciale di plastica che riportava il suo nome. Arthur MacPherson venne sepolto nel cimitero luterano di Smolensk, a San Pietroburgo.
A questo dramma ne seguì ben presto un altro dato che nello stesso anno perse la vita anche il suo secondogenito, Robert MacPherson. Nato nel 1897, Robert si unì all’esercito britannico e divenne membro del personale del Segretario di Stato per la Guerra, tale Lord Horatio Herbert Kitchener. Alle 19.30 del 5 giugno 1916 la nave diretta in Russia su cui si trovava a bordo ha colpito una mina tedesca a ovest delle isole Orcadi ed è affondata. Il patron dello sport in Russia era il padre anche di Arthur MacPherson Junior, un intrepido e affascinante avventuriero che dopo aver prestato servizio presso l’esercito Britannico, pare abbia svolto il ruolo di spia per conto dei Servizi Segreti inglesi a Riga. Ottimo giocatore di tennis vinse diversi tornei sia in Lettonia che in Finlandia finché, ottenuto un regolare passaporto britannico,nel 1917 ha preso parte agli U.S National Championships dove ha raggiunto il terzo turno prima di cedere al californiano John Strachan. Nel 1920 e nel 1923 Arthur Junior ha agguantato il terzo turno anche a Wimbledon mentre tra il 1930 e il 1936 ha partecipato ai principali eventi tennistici trionfando in alcuni tornei organizzati nella costa orientale degli Stati Uniti. Appesa la racchetta al chiodo, Arthur si è stabilito a New York e, sposatosi con Helen McAuley, da cui non ebbe figli, è diventato broker e socio della Fahrenstock & Co. Nel 1941 ha vinto il Campionato Nazionale Senior degli USA e, insieme a Watson Washburn, nel 1942 e nel 1944 s’è imposto anche nella specialità del doppio. Sopravvissuto alla moglie e alla sorella maggiore, Elinor MacPherson Zaleska; Arthur MacPherson Junior si è spento a New York il 12 settembre del 1973. Ad ogni modo, l’importanza e l’apporto mosso da Arthur MacPherson a favore del tennis, è stato riconosciuto in occasione del 100esimo anniversario della nascita della Federazione Tennis russa quando a suo nome è stato intitolato il più alto riconoscimento tennistico, la Medaglia Commemorativa Arthur McPherson. Ma facciamo un passo indietro. Dopo la caduta degli zar, l’URSS ha, a poco a poco, riaperto i cancelli allo sport e di conseguenza al tennis.
Risale al 1924 l’edizione inaugurale dei Campionati Sovietici; vinti da Tamir Sukhodolskaya e George Stolyarov. Il primo illustre tennista russo fu però Alexandr Alenitsyn: vincitore dal 1909 al 1911 del torneo di San Pietroburgo e campione a Mosca nel 1911. Arrestato nel 1922 in quanto accusato di coltivare relazioni con l’estero, dopo venti giorni si suicidò in cella. La vita e lo Stato furono più magnanimi con Boris Novikov. Seppur meno talentuoso di Alenitsyn; Novikov si impose per 6 volte ai Campionati Sovietici e, abbandonata la carriera agonistica, divenne coach di Vyacheslav Egorov. Un altro ottimo giocatore del periodo fu il nipote del generale Mikhail Kutuzov, tale Mikhail Sumarokov-Elston. Nato destroso, un incidente alla mano di cui fu vittima a dodici anni lo costrinse a impugnare la racchetta con la sinistra. Incredibilmente, due anni dopo vinse il torneo di Bad Homburg. Arrestato dai bolscevichi, ma rilasciato dopo due giorni, Mikhail emigrò dalla Russia prima che la situazione degenerasse definitivamente. Visse tra Malta, Roma e Londra. Descritto da Henri Cochet come un tennista dal “rovescio formidabile”, dopo aver conseguito tanti successi nel periodo zarista, da esule l’eleganza del suo stile non generò risultati: il buio della Rivoluzione d’Ottobrelo aveva segnato irrimediabilmente.
Nel 1929, a testimonianza di un pallido tentativo di apertura, il Partito istituìun organo teso allo sviluppo del tennis in Unione Sovietica: l’Unione Sezione Tennis. Un lieve ammiccamento nei confronti dell’Occidente da parte del regime avvenne nel 1936, quando consentì al Moschettiere Henri Cochet di aprire una Scuola di tennis a Mosca. Volontà di Stato fu però che gli allievi del campione transalpino; tali Eugene Korbut, Nikolai Ozerov, Antonina Nifontova e Vera Filippova; per quanto abili con la racchetta, riducessero al minimo le apparizione oltre confine. La Federazione Tennis URSS venne ufficialmente riedificata nel 1956 e, due anni dopo, alcuni atleti sovietici presero parte a una manciata di tornei internazionali. Anna Dmitrieva e Andrei Potanin si presentarono sia al Kent All-Commer’s Championshipssvoltosi a Beckenham che alla competizione Juniores di Wimbledon. La Dmitrieva raggiunse la finale sia a Beckenham che a Wimbledon under 18mentre Potanin fu finalista a Beckenham mentre nello Slam londinese raggiunse i quarti di finale. Il giocatore simbolo degli anni ’50 fu comunque Sergey Andreev: vincitore di 12 Campionati Nazionali in Russia e Campione Olimpico nel 1956; dedicò la sua vita al tennis, prima come giocatore poi come capitano di Coppa Davis e consigliere Federale.
Tra mille difficoltà e altrettanti sospetti; a poco, a poco il serbatoio russo iniziò a produrre un certo numero di giocatori di livello. Strepitosa fu la carriera giovanile di Vladimir Korotkov. Primo prodotto del CSKA di Mosca, appena sedicenne Korotkov trascinò la rappresentativa Juniores alla conquista della Galea Cup e raggiunse la finale di Wimbledon Juniores. Tra il 1965 e il 1966 vinse i 3 slam juniores a cui partecipò; ossia due Wimbledon (1965, 1966) e un Roland Garros (1966). A vent’anni, in occasione delle Olimpiadi di Città del Messico 1968, Vladimir si appese al collo un bronzo in singolare ed un oro nella specialità di doppio misto. Praticamente imbattibile in Unione Sovietica, nei tornei internazionali senior non è però mai riuscito a brillare, dovendosi accontentare di un terzo turno ai French Open. Al tempo stesso, la squadra Juniores femminile s’impose all’attenzione generale aggiudicandosi la Souabault Cup nel 1968; eppure da quella “covata” non emerse nessuna giocatrice di rilievo.
La svolta avvenne nel luglio del 1970 quando l’Unione Sovietica, personificata nel ventiseienne Alex Metreveli e nella ventunenne Olga Morozova, tentò di invadere il Tempio del tennis. La finale di Wimbledon disputata e persa contro Rosemary Casals ed Ilie Nastase per 6-3 4-6 9-7, fu la prima di una serie di imprese compiute dai due gioielli russi. Se nel 1972, agli Internazionali d’Italia, Olga Morozova è stata la prima giocatrice sovietica ad issarsi fino alla finale di un torneo WTA; nello stesso anno Alex Mentreveli raggiunse la semifinale sia all’Australian Open che al Roland Garros dove, dopo aver battuto Adriano Panatta, cedette in cinque set al futuro campione Andres Gimeno. In un’edizione di Wimbledon boicottata da ottantuno giocatori come segno di protesta nei confronti della sospensione inflitta a Nikola Pilic, a causa di un presunto rifiuto del tennista slavo di rappresentare la sua Nazione in Coppa Davis; l‘8 luglio del 1973 Alex Metreveli è passato alla storia come il primo russo ad aver messo metter piede sul leggendario Centre Court per contendersi il titolo; purtroppo finito nelle tasche di Jan Kodes. Silenziosi, eleganti e sempre con “i visti contati”; Alex ed Olga vissero un 1974 da protagonisti. Tra il giugno ed luglio del 1974 la Morozova ha disputato le finali sia al Roland Garros che a Wimbledon; perdendo entrambe le volte contro Chris Evert. Sempre nel 1974, sia Metreveli che la Morozova si issarono fino ai quarti agli US Open. L’anno in questione fu inoltre spettatore di un avvenimento storico in quanto all’ultimo atto del torneo di Philadelphia Olga Morozova sconfisse Billie Jean King per 7-6 6-1.
“M&M” divennero in Patria dei veri e propri eroi nazionali. Per rendersi conto di quanto grandi furono Metreveli e la Morozova bisogna però tentare di catapultarsi nella loro epoca, di immaginarsi nei loro stessi panni, di immedesimarsi nelle limitazioni che furono costretti ad affrontare, nelle pressioni che dovettero subire. A livello di “numeri” in carriera Alex Metreveli ripose in bacheca 15 titoli ed il suo best ranking coincise con la nona posizione. Olga Morozova ha invece conquistato 8 titoli e il 3 novembre 1975 si è issata fino al settimo gradino della classifica WTA. Nella specialità di doppio, in coppia con Chris Evert, la Morozova ha trionfato al Roland Garros nel 1975. È stata poi finalista agli Australian Open 1975 insieme a Margaret Court; al Roland Garros 1975 insieme a Julie Anthony, ed agli US Open 1976 insieme a Virginia Wade. In doppio ha ottenuto un totale di 16 successi; tra cui tre edizioni consecutive degli Internazionali d’Italia, sempre con compagne diverse: nel 1972 con l’australiana Lesley Hunt, nel 1973 con la britannica Virginia Wade e nel 1974 con Chris Evert.
Uscite di scena le punte di diamante; le retrovie composte da TeimurazKakulia, Vadim Borisov, Nastasha Chmyreva, Toomas Leius – che ha ottenuto il suo miglior piazzamento con una finale in doppio misto al Roland Garros del 1971 – e Shamil Tarpischev – destinato a diventare un punto fermo all’interno della Federazione – non riuscirono esibirsi in particolari exploit e, di conseguenza, il movimento sovietico conobbe l’ennesima flessione. Lo sviluppo e la diffusione del nobil gioco in Russia rimase problematica. Se da una parte il regime era diffidente e condizionato dagli echi provenienti dal passato che facevano del tennis una disciplina prettamente occidentale, etichettata come d’elite; allo stesso tempo le temperature russe rendevano alquanto ostica la pratica stessa. Per rendere popolare il tennis occorrevano strutture e quindi denaro da indirizzare per incentivare uno sport che per una serie di luoghi comuni poco conciliava con le ideologie politiche che imperversavano. Inoltre, se gli sport a squadre o le attività legate all’atletica prevedevano spostamenti mirati a pochi eventi internazionali, il tennis è sempre stato uno sport “di mondo”; quindi una potenziale minaccia alla “chiusura” imposta dal regime comunista. Spiragli di luce iniziarono però ad insinuarsi nei tenebrosi corridoi sovietici sul tramonto degli anni ’80: il vento dell’est era ormai pronto per soffiare i suoi atleti alla conquista del tennis mondiale.
Privata della possibilità di lasciare l’URSS per partecipare ai tornei del circuito WTA, quindi considerata di fatto una professionista senza passaporto, Tatiana Naumko ha abbandonato presto la carriera agonistica ripiegando sull’insegnamento in un piccolo circolo di Mosca e la dedizione che riversava sul lavoro le valse un secondo incarico quale talent scount nelle scuole locali. Fu tra le irreprensibili mura di una scuola alla periferia di Mosca che nel 1974 Tatiana rimase colpita da un bambino di sette anni dal fisico asciutto e l’aria malinconica che a ogni domanda rispondeva a monosillabi: Andrei Chesnokov. I suoi genitori avevano divorziato quando aveva tre anni e di lui si occupava la madre, un ingegnere. Da quel giorno Andrei di madri ne avrebbe avute due. Sotto l’ala protettrice della Naumko, il piccolo Andrei si è allenato, è diventato campioncino russo under 14 e ha iniziato a viaggiare il mondo. Dalla Federazione russa però quell’unione era vista con diffidenza: ritenevano infatti che una donna non fosse idonea per allenare la punta di diamante del serbatoio. La sola cosa che Tatiana disse ad Andrei fu: «qualsiasi cosa decidi io sarò felice». Chesnokov scelse lei e seppure non vincerà mai uno Slam, insieme a Tatiana agguanterà un best ranking come n.9 del mondo e conquisterà 7 titoli ATP tra cui il torneo di Orlando nel 1988 dove in finale batté Mecir, di Montecarlo nel 1990 dopo sconfisse Muster e di Montreal nel 1991 dove supera Petr Korda. Semifinalista al Roland Garros nel 1989, dove ebbe la meglio sul campione in carica Mats Wilander, il moscovita ha ottimizzato anche un quarto di finale a Melbourne e tre ottavi di finale all’US Open. L’incontro che ha reso Andrei una sorta di eroe nazionale ha però luogo il 24 settembre 1995 quando, in occasione della semifinale di Coppa Davis contro la Germania sconfisse Stich con il punteggio di 6-4 1-6 1-6 6-3 14-12 dopo aver annullato 9 match point; meritandosi la decorazione dell’Ordine del Coraggio da parte del presidente Boris Yeltsin.
Pure Andrei Cerkasov, classe 1970, ha avuto un’allenatrice che l’ha seguito per tutta la carriera diventando una sorta di seconda madre: Natalia Rogova. Nato ad Ufa, città-fortezza costruita da Ivan il Terribile, Andrei non resterà fedele fino in fondo alle premesse abbozzate da Juniores e, pur diventando un rispettabilissimo n.13 del mondo, si intascherà solo 2 titoli ATP, entrambi a Mosca nel biennio 1990-1991, raggiungerà un quarto di finale a Melbourne nel ’90 ed al Roland Garros nel ’92, anno in cui si appenderà al collo anche la medaglia di bronzo alle Olimpiadi di Barcellona. Pittoresca è stata la “fedina” presentata da Aleksandr Volkov. A sostegno della tesi che ognuno di noi ha un punto debole, quello del talento di Kaliningrad era di certo il braccio destro, destinato a fratturarsi due volte in incidenti banali che lo spinsero, a dieci anni, ad impugnare la racchetta di mancino. Ex n.14 del mondo e un tennis imprevedibile che ne fecero una mina vagante in grado di imprimere 3 sigilli ATP sul sintetico indoor di Milano su Cristiano Caratti, sul cemento di Auckland su MaliVai Washington e in casa, alla Kremlin Cup sullo yankee Chuck Adams. Volkov seppe farsi dar del lei anche negli slam con due terzi turni a Parigi, un ottavo a Melbourne, una semifinale nella Grande Mela e quattro ottavi a Wimbledon dove, se nel 1991 agli sgoccioli di un quinto set contro Michael Stich, mentre conduceva 5-3 30-15 un net maligno colpito dal tedesco ha impennato la pallina sopra alla sua testa per andare a morire sulla riga e di fatto negargli due match point, un possibile quarto e chissà che altro.
Nessuno di questi tre giocatori si è rivelato l’uomo capace di trascinare la Russia nelle due finali di Coppa Davis perse nel 1994 contro la Svezia e nel 1995 contro gli USA. Non solo. Né Chesnokov, né Cerkasov, né tanto meno Volkov, ebbero la forza di oporsi, di gridare la loro rabbia verso il regime. A farlo fu infatti una ragazzina di diciassette anni.
È il 4 giugno 1988 quando, dopo 34 minuti di tribolazione, Natalia Zverevaentra nella storia del tennis subendo la sconfitta più veloce nella finale di una prova del Grande Slam. Il macello subito per mano di Steffi Graf, le fece appiccicare addosso l’etichetta di “perdente” e il carattere timido, introverso, lo sguardo sempre un po’ abbassato fecero sì che le sue vittorie al Roland Garros e all’US Open juniores venissero presto dimenticate. Indottrinata da papà Marat, un ex calciatore diventato il suo coach, succube della Federazione Sovietica, rea di sottrarle quasi il 90% dei premi in denaro, quando nell’aprile del 1989 Natalia mise i piedi in finale a Hilton Head; come in Francia, anche in South Carolina, dall’altra parte della rete si ritrovò Steffi Graf e pure in quella circostanza rimediò una stesa. Più o meno le solite cose. Finché, durante la cerimonia di premiazione le viene consegnato l’assegno di 24.000 $. Natalia Zvereva lo prende in mano, lo solleva e, rivolta al pubblico, bisbiglia: «Questo per me non è niente. È solo carta». Di fatto quella ragazza taciturna aveva dichiarato guerra all’Unione Sovietica. Un’insurrezione, che spinse i suoi connazionali ad accusarla di tradimento, ma che si fece sentire al momento giusto perché, da lì a poco tutto morì o meglio risorse: la cortina di ferro venne recisa, l’URSS crollò e alla Bielorussia, nella cui capitale, Minsk, la Zvereva è nata il 16 aprile del 1971, venne riconosciuta l’indipendenza. E, insieme alla decisione di abbandonare il nome Natalia, per diventare Natasha, a poco a poco, l’ex perdente che aveva osato sfidare il comunismo, si trasformò in una donna spigliata, spontanea, espansiva, capace di vincere 4 titoli WTA, di raggiungere una semifinale a Wimbledon – battendo per l’unica volta in carriera la Graf – di issarsi fino al quinto posto del ranking in singolare e sul trono di n.1 in doppio, dove i successi saranno ben 80, inclusi 18 slam.
Passò quasi inosservato Andrej Stoljarov – che a Chennai ebbe un guizzo mai confermato dalla classifica dove al massimo fu n.71 -; degna di nota fu l’andatura di Andrej Ol’chovskij; il quale giunse alle soglie del tennis che conta in ritardo e all’onorevole carriera di singolarista – dove raggiunse il 49esimo grandino del ranking con 2 titoli ATP – affiancò una superba attività da doppista dimostrandosi un top 10 costante per circa un decennio capace di azzannare 20 tornei su 40 finali – compresa una persa al Roland Garros in coppia con il sudafricano David Adams contro gli elvetici Hlasek e Rosset. A Ol’chovskij andò meglio in doppio misto in quanto vinse il Roland Garros con la connazionale Evgenija Manjukova – il cui best ranking in singolare è stato n.66 e in doppio n.13 – e l’Australian Open con Larisa Neiland, nata nel 1966 a Leopoli come Savchenko. Prima di guadagnarsi il passaporto lettone, è stata ex n.18 del mondo in singolare con due tornei WTA, e prima assoluta in doppio dove vanta 65 tornei complessivi tra le cui piene si distinguono 9 finali slam nel misto – vincendo un French Open e ripetutendosi a Melbourne sempre con Mark Woodforde e vincendo Wimbledon con Cyril Sul – e 12 nel femminile dove afferra il Roland Garros e Wimbledon, a fronte di 6 finali, con Natasha Zvereva. Restando tra le signore rispettabile fu il curriculum della georgiana Leila Meskhi che su 11 finali WTA ne ripose in cassetto 5 ed ebbe un best ranking come n.12 del mondo.
Non ci sono particolari aneddoti da raccontare su Elena Lichovceva – classe 1975, ex n.15 del mondo con 3 titoli WTA e tanti piazzamenti slam: cinque ottavi negli States, un quarto in Australia e in Gran Bretagna e una semifinale in Francia; ma ancor più egregia doppista, dove ha scaldato il terzo gradino del ranking grazie a 2 slam nel misto – a Wimbledon con Buphathi e all’Australian Open con Nestor – e 27 tornei vinti nel femminile dove però è sempre uscita sconfitta in quattro finali slam.
Tutt’altro can can ha provocato l’ascesa e la precoce caduta di Anna Kurnikova. Emigrata alla Nick Bollettieri Tennis Academy a dieci anni, appena quattordicenne divenne campionessa del mondo ITF Juniores. Con sommo dolore dei numerosissimi sponsor, nonostante una serie di piazzamenti di tutto rispetto, tra i quali risalta una semifinale a Wimbledon a sedici anni, Anna non fu mai una vincente, almeno in singolare, dato che perse malamente quattro finali. D’altronde, un motivo c’è se nel Poker Texas Hold’em il suo nome è ironicamente usato per indicare quando un giocatore ha tra le mani asso e re – AK – in quanto questa combinazione «per quanto bella, non vince quasi mai». Avere vicina Martina Hingis in doppio le portò invece maggior fortuna e oltre a toccare la vetta del ranking trovarono posto al suo angolo 2 Australian Open. Resta il fatto che gran parte della sua fama è derivata dalla pubblicità intorno alla sua vita privata, attualmente formalizzata con il matrimonio con la star Enrique Iglesias.
La nota citazione di Wiston Churchill in cui definì la Russia «un indovinello avvolto in un mistero all’interno di un enigma»; pare combaciare in tutta la sua sinistra perfezione con l’indole indecifrabile, che ha determinato la coesistenza di trionfi e cadute di Evgeny Kafelnikov. Nato a Sochi il 18 febbraio del 1974 quando il padre lo accompagna per la prima volto al Riviera Park, un Circolo Tennis immerso in un bellissimo parco della città, Evgeny ha cinque anni ed è talmente gracile che il maestro a cui viene affidato, tale Peschanko, si chiede come faccia a reggere la racchetta. Che nelle sue vene ristagni una freddezza che sembra appartenere alla gelida Mosca in cui è stato addestrato è uno degli aspetti di cui va più fiero Lepyoshin Anatoly, il coach prescelto per accompagnare Evgeny nel mondo dei professionisti. Impossibile capire cosa passi nella mente di quel russo che mastica mal volentieri qualche parola d’inglese, indecifrabile nella vittoria quanto nella sconfitta, “inconoscibile” per colleghi e addetti ai lavori. «Io sono quello che sono indipendentemente da quello che gli altri possono pensare»; ha sempre tenuto a precisare il Principe Eugenio le cui accelerazioni violente e precise hanno finito con il privarlo del soprannome originale a discapito del più letale Kalashnikov. La sublime capacità di domare le traiettorie, di creare accelerazioni violente, precise, di far sì che i suoi schemi non fossero mai banali, bensì acuti, dinamici, lo hanno reso un giocatore eclettico ed irrazionale al punto da scivolare nel gorgo di un amore – quello per la bella Masha di cui adotterà la prima figlia e con cui avrà l’adorata Alesya – che lo avrebbe perennemente inaridito, limitandone il rendimento, la continuità. Evgeny si è autoproclamato il primo figlio della Madre Russia capace di vincere uno slam – il Roland Garros nel 1996, a cui seguirà l’Australian Open nel 1999 -, il primo figlio a diventare n.1 del mondo e finora il primo e unico a salutare un’Olimpiade – Sydney 2000 – con un oro al collo. Eppure Kafalnikov è stato – e forse sarà per sempre il prediletto non tanto per i primati o i 26 titoli ATP, non perché la sua completezza gli ha permesso di farsi valere pure in doppio con tanto di 4 slam – 3 Roland Garros e un US Open -; bensì perché dietro allo sguardo impenetrabile covava un maelstrom di passione; ed ha sempre messo il suo paese al primo posto: ne sono testimoni le garanzie da lui messe in atto affinché la Kremlin Cup sopravvivesse e la prima Coppa Davis portata in patria, nel 2002, quando trascinò la sua squadra in un’incredibile rimonta contro la Francia.
Venne poi l’istrionico, incontenibile, irascibile, a tratti inconcepibile Marat Safin. Classe 1980, nato a Mosca da genitori tatari, entrambi ex tennisti e allenatori, sia lui quanto la sorella Dinara – di sei anni più giovane – si sono formati tra lo Spartak Tennis Club e la soleggiata Valencia per divenire l’unica coppia di fratelli n.1 al mondo nella storia del tennis nelle rispettive sezioni. Marat ha riposto nella sua bacheca 15 titoli ATP, tra cui un US Open magistrale – dove in finale demolì letteralmente Pete Sampras – e un Australian Open – in cui dopo aver battuto Roger Federer in un’epica semifinale non gli rimase che spezzare i sogni del beniamino di casa Hewitt – e due Coppa Davis; mentre Dinara sarebbe passata alla storia come una sorta di eterna seconda dato che al di là di 13 titoli WTA perse le 4 finali più importanti della sua vita: una nella terra dei canguri, due a Parigi e una alle Olimpiadi di Pechino.
Un altro personaggio essenziale al punto da essersi proposto quasi come una sorta di invisibile dotato di superpoteri è stato Nikolaj Davydenko. Non vinse mai slam, si spinse al massimo sul terzo gradino del ranking ma si proclamò maestro, oltre che letteralmente ingiocabile in 21 tornei tra cui Miami, Parigi Bercy e Shanghai. Bello, seppur nell’arco di una sola settimana, fu Igor’ Kunicyn che nell’ottobre 2008 focalizzò tutta l’attenzione su di sé negando la Kremlin Cup al nobile Safin, che invece mai fu profeta nella Coppa del Cremlino. In tre eventi, tra cui Mosca, è riuscito a far la voce grossa IgorAndreev. Nel 2007 al primo turno del Roland Garros sorprese l’allora n.3 del mondo Andy Roddick, per quindi avviarsi verso l’unico quattro di finale in uno slam dove perse miseramente per mano di Djokovic; e in quel cammino vi è molta della sua sostanza; un vorrei ma non posso, come lo sfondare a malapena il muro della top 20 o il a lasciarsi sfuggire la promessa sposa Maria Kirilenko. Devastante nei giorni di luna buona è (stato) Michail Južnyj. Sublime e al tempo stesso evanescente, coraggioso quanto ansiotico, il moscovita che a Miami arrivò a ferirsi la testa a suon di racchettate, ha anche spaccato 10 tornei ATP e alla storia rimarrà il 6-1 6-0 inflitto a Rafael Nadal all’ultimo atto di Chennai. Ultimo russo – finora – a prendersi la Kremlin Cup, facendo leva sul sublime rovescio a una mano fu protagonista in Coppa Davis, manifestazione che ha conquistato nel 2002 – quando autografò il punto decisivo contro il francese Mathieu, e nel 2006. A quota 7 titoli si è arrampicato un altro eroe della Coppa Davis del 2006: Dmitrij Tursunov; mentre – seppure macchiato da una sospensione di un mesetto perché trovato nel 2005 positivo a un test antidoping – un torneino, ossia Atlanta, se lo è intascato anche Alex Bogomolov Jr. A bocca asciutta sono finora tre interpreti baciati da una certa classe quali Teymuraz Gabashvili, AndrejKuznetsov – la cui schiena scricchiolante non gli ha permesso di rispettare le attese suscitate dopo la vittoria a Wimbledon Juniores -; e Evgenij Donskoj– che nel 2017 a Dubai si è preso la soddisfazione di preparare le valigie a Federer -.
Magre consolazioni, che hanno conosciuto il loro baratro nel 2012 quando a San Jose do Rio Preto, la peggiore Russia a memoria d’uomo (con Bogomolov jr., Andreev, Gabashvili e Vovk), venne triturata 5 a 0 dal Brasile. Quella Waterloo Sudamericana trascrisse a parole la crisi che a partire dalla seconda decade del nuovo millennio l’ormai ex superpotenza stava mestamente attraversando. Se mai sono decollati gli onesti Konstantin Kravčuk, Aslan Karatsev, mentre il Kazakistan ha fatto shopping assicurandosi gli inespressiMichail Kukuščkin – vincitore del torneo di San Pietroburgo nel 2010 – e Andrej Golubev – vero e proprio braccio d’oro capace di sistemare tutti all’ATP 500 di Amburgo nel 2010 -; sono rimasti impantanati tra Challenger e Futures i vari Victor Baluda, Stanislas VovkMikahil Biryukov – che si intascò il Trofeo Bonfiglio nel 2010 – e Roman Safiullin – che nel 2015 si prese la competizione juniores all’Australian Open -. Il futuro del tennis russo maschile pare essere custodito nel triunvirato formato da Andrey Rublev(classe 1997), Karen Khachanov (classe 1996) e Daniil Medvedev (classe 1996). Il più frizzante, fantasioso e nervosetto – al punto da essere stato già attore principale di episodi borderline come un lancio di monetine a un arbitro e di una rissa verbale con Tsitsipas – è oltre ogni ragionevole dubbio Medvedev. Cresciuto in Costa Azzurra ha fatto il salto sotto alla guida di Gilles Cervara ed alla finale sbriciolatasi a Chennai nel 2017, ha risposto imponendosi a Sydney nel gennaio del 2018. Il più potente e massiccio della cerchia è invece Khachanov. Alto quasi due metri, verso i dieci anni è stato costretto a scegliere tra il basket e il tennis: premuta la seconda opzione, per tentare la scalata si è trasferito prima in Croazia agli ordini di Vedran Martic, poi in Spagna nell’Accademia di Galo Blanco, per quindi tornare alle origini con il coach di Split. Finora ha sorriso negli ATP 250 di Chengdu – dove all’ultimo atto ha superato Romos – e di Marsiglia – vittorioso su Pouille -; eppure l’impressione è che qualcosa non stia germogliando come dovrebbe in Karen e che la forza da lui generata sia spesso limitata a produrre schemi telefonati, persino goffi, figli di un piatto addestramento. Figlio di un pugile e di un’allenatrice – che lo ha seguito giusto per una manciata di stagioni – colui che pare custodire nel DNA i geni in grado di elevarlo come dopo Kafelnikov-Safin è Andrey Rublev. Dotato di un servizio da cecchino, di un diritto micidiale eseguito attraverso una frustata illeggibile, di un rovescio incisivo e di una fisicità tutta da costruire; Andrey incarna il modello di interprete creativo e un po’ spocchioso che fa della predestinazione uno dei suoi punti di forza. Promessa suggerita sin dal successo conseguito al Roland Garros Juniores del 2014 e, tempo tre anni, sbocciato tramite la vittoria all’ATP 250 di Umago e ai quarti raggiunti all’US Open – dove ha smantellato Dimitrov e Goffin prima di cedere a Nadal – deve dimostrare di meritare il bacio di cui lo hanno marchiato gli dei del tennis.
Molte ed attualmente capitanate da Daria Kasatkina sono le nuove leve del settore femminile. Nata a Togliatti nel 1996, Daria ha già disputato quattro finali WTA a livello Premier vincendo sulla terra verde di Charleston e grazie al suo gioco versatile, estremamente tattico e anacronistico rispetto al panorama attuale, può vantare scalpi di eccellenze quali Venus Williams, Halep, Wozniacki, Kerber, Muguruza e Radwanska. Chi rischia di dimostrarsi una fotocopia di Vitalia Diatchenko – perennemente vessata da malanni e infortuni ma che un titolo l’ha comunque raccattato a Taipei nel 2014 – è l’ancora giovane ma troppo distratta dalla mondanità Elizaveta Kulichkova. Da scricciolo quale è, non possiede forse il bagagliaio necessario per fare il botto Irina Khromacheva; mentre non mancano le soluzioni a MargaritaGasparyan, ben augurante campionessa a Baku nel 2015, ma tradita da un ginocchio che l’ha costretta a ricorrere a tre interventi chirurgici. In mezzo a tante incertezze legate al futuro del tennis russo si fanno largo le ipotesiAnna Kalinskaya – classe 1998 e finalista al Roland Garros Juniores 2015 -; Olesya Pervushina – che ha visto la luce nel 2000 e probabilmente è la più tecnicamente completa della nuova covata – Sofya Zuk – Venere Bianca nata nel 1999 e campionessa a Wimbledon Juniores 2015 sulla connazionale, da tenere pure lei sotto osservazione, Anna Blinkova – e Anastasia Potapova – pulcino del 2001, vincitrice a Wimbledon Juniores 2016 e finalista all’evento alla River Cup, evento WTA organizzato dal suo stesso manager nella capitale russa -; mentre – come già è avvenuto con Shvedova, Voskoboeva e Putintseva – è stata esiliata in Kazakistan Elena Rybakina; Lolita ma non troppo, ma di certo troppo poco umile dal tuonare alla vittoria del Bonfiglio che avrebbe vinto «tutti gli slam». Finora ha battuto Bacsinszky e Garcia, entrambe al WTA di San Pietroburgo; ma se rapportato alle minacce ne un altro “troppo”, seguito dalla parola “poco”.
Concludiamo questo viaggio con l’esercito più temuto e vincente della storia del tennis russo. Tutto ebbe inizio con Anastasia Myskina ed Elena Dementieva. Entrambe coltivate da Rauza Islanova – madre dei fratelli Safin – accomunate da un servizio debole, da insicurezze caratteriali e da un ritiro annunciato forse troppo presto; a farle passare alla storia come le prime due giocatrici russe a sfidarsi in una finale del Grande Slam è stata l’incrollabile determinazione, lo spiccato senso tattico e, tra logica e sentimento, quel senso di responsabilità che le ha rese apripista di un qualcosa in pieno divenire. Elena e Anastasia scrissero il primo capitolo della storia il 5 giugno del 2004 a Parigi; il 5 luglio dello stesso anno Maria Sharapova trionfò a Wimbledon, l’11 settembre Svetlana Kuznetsova conquistò l’US Open – e di fatto la Dementieva perse la sua seconda e ultima finale slam -. Sempre nel 2004, la squadra di Fed Cup fece dono al proprio paese anche della prima di quattro edizioni di Fed Cup. Nate tutte e due nel 1981; la Dementieva ha salutato il tennis con 16 titoli WTA con tanto di oro olimpico vinto a Pechino 2008, mentre la Myskina di tornei ne ha vinti sei in meno, ma lo slam parigino finì nel suo borsone. Queste due straordinarie donne e giocatrici hanno in comune pure degli incubi, consumatisi in luoghi diversi, in annate diverse ma in sfide che, chissà, le avrebbero forse condotte alla soglia di nuovi attimi di gloria. Se nella semifinale dei Giochi Olimpici di Atene del 2004 Anastasia Myskina arrivò a condurre 5-1 al terzo su Justine Henin prima di subire la rimonta della belga; nel penultimo step di Wimbledon 2009 la Dementieva accettò la sfida di Serena arrivando persino al match point prima di cedere 6-7(3) 7-5 6-8.
Tra Nastya e Lena si è inserita Nadia Petrova – ex n.3 del mondo mai finalista slam ma protagonista di 13 eventi distribuiti in tutte le superfici tra cui alcuni di prim’ordine come Doha, Amelia Island, Cincinnati, Charleston, Berlino e Stoccarda e ben vittoriosa in 24 tornei du doppio compresi 2 Master, il primo in coppia con Meghann Shaughnessy e il secondo con Maria Kirilenko con cui è stata medaglia di bronzo alle Olimpiadi di Londra nel 2012. Ed a proposito della Kirilenko, dal padre calciatore la splendida Maria non ha ereditato la robustezza anzi, la palese gracilità ha limitato il suo tennis aggraziato, educato, anche se interpretato sufficientemente bene da assicurarle 6 titoli WTA. Bollata come una perdente di successo incapace di contenere le proprie dirompenti emotività, Vera Zvonareva ha (avuto) nella velocità di palla e nella versatilità dei valori aggiunti capaci di innalzarla ai vertici. Tra lacrime e crisi isteriche, a fasi alterne Vera è riuscita a configurarsi, issandosi fino alla seconda piazza del ranking in un magico 2010, anno in cui perse le finali di Wimbledon e dell’US Open. Il problema della “fase decisiva” è stata una sua costante: su 31 finali, ne ha chiuse solo 12 con le braccia al cielo e il fatto che tra esse si distinguano tornei di prim’ordine quali Cincinnati e Indian Wells rende il rebus Zvonareva ancora più di difficile comprensione, se non addirittura irrisolvibile.
Colpita in piena ascesa – era n.20 del mondo – dal Lingoma di Hodkin, AlisaKleybanova non ha potuto attingere dal suo potenziale e le vittorie di Kuala Lumpur e Seul del 2010 oltre agli ottavi raggiunti a Melbourne e a Wimbledon saranno da considerarsi l’apice di una carriera troncata dal fato. Un crollo improvviso ha invece spezzato le ali di Anna Chakvetadze: prima la difficile gestione della sincope neuro-cardiogena da stress, poi il trauma scatenato da un furto subito nella propria abitazione presa d’assalto da una banda ladri mai identificati che hanno legato e picchiato lei e i genitori, infine due ernie, una cervicale e l’altra spinale, ne hanno compromesso l’equilibrio fisico e mentale inducendo la pianista dal gioco preciso, aureo e levigato, a lasciare il tennis a ventisei anni con 8 titoli WTA in bacheca. Tra ritiri dovuti a cali di pressione e stop causati da disparati infortuni, non si è finora espressa al meglio Anastasia Pavlyuchenkova. Nel 2006, a quindici anni, vinse gli slam juniores di Melbourne e New York, per quindi ripetersi in Australia l’anno successivo; eppure il passaggio al professionismo non è stato altrettanto easy. 13 titoli WTA e almeno un quarto di finale raggiunto in tutti gli slam possono offrire una percezione delle vette a cui potrebbe aspirare Anastasia, la cui completezza e pulizia di gioco, sembra però andare di pari passo all’incapacità di trovare una dimensione dove tirano i grandi venti. Prese in coppia Elena Vesnina ed Ekaterina Makavora hanno fatto la storia: 3 slam – manca loro solo l’Australian Open – un Master, un oro olimpico a Rio e prima coppia tutta russa a diventare n.1 del mondo di doppio. L’astuta decisione di dividersi Bruno Soares ha permesso loro di vincere anche nel misto: Elena in Australia ed Ekaterina negli Stati Uniti. Prese singolarmente, non poteva essere diversamente, hanno vinto tre titoli ciascuna e per la Vesnina l’escalation è culminata con il successo a Indian Wells dove ha approfittato delle fragilità della sciarada per antonomasia: Svetlana Kuznetsova.
I non luoghi della Russia, quelle distese vaste, estreme, marcate da orizzonti senza fine, che inducono all’introspezione, alla ricerca di sé stessi al di là di sé stessi, sembrano riflettersi, plasmarsi, nella personalità enigmatica di Svetlana Kuznetsova. La classe cristallina, l’innato atletismo, la capacità di offrire dimostrazioni di forza al limite dello spiazzante, le hanno permesso di spiccare il volo verso l’US Open ad appena diciannove anni, di imporsi al Roland Garros dopo un lustro, di essere tuttora l’unica russa ad essersi affermata al Miami Open e per due volte al China Open, di aver sfatato la maledizione che la voleva incapace di dare il meglio alla Kremlin Cup, poi addomesticata nel biennio 2015-2016; smentendo giudizi sommari, risorgendo dalle proprie ceneri dopo essere stata data per finita più e più volte fino ad arricchire la propria bacheca di 18 titoli WTA in singolare e 16 in doppio – compresi altri due slam vinti in Australia nelle annate 2005 e 2012 -. Nata a San Pietroburgo il 27 giugno del 1985, per quanto forse non abbia vinto quanto avrebbe potuto, o dovuto, Svetlana Kuznetsova è tuttora uno scrigno di opportunità che la rende una numero uno anche senza la conferma del computer, un tarlo nella mente delle avversarie, un personaggio capace di influenzare con i suoi umori match, tornei stessi; tanto nel bene quanto nel male. L’incapacità di governare il proprio talento, di domare la complessità delle soluzioni a cui può attingere; di convivere in armonia con quella scintilla capace di illuminarne il gioco, ma anche di ottenebrarlo, sono un tutt’uno con la ricerca di assoluto acceso dal connubio mente-cuore che fadella Kuznetsova giocatrice una creatura inscindibile dalla Kuznetsova essere umano; ponendo sempre in primo piano lei, nella sua essenza: una donna talmente ricca di sfumature da essere sfregiata da un’infinità di brezze leggere, un’artista solitaria, un lampo di luce che infrange le tenebre di un tennis non più violentato, bensì preso per mano, indirizzato verso una sorta di incantesimo soffuso, un territorio inespugnabile che risponde a un solo nome: bellezza.
Il disastro nucleare di Cernobyl convinse invece una coppia di coniugi bielorussi a emigrare in Siberia, dove il 19 aprile del 1987 nacque la loro primogenita. Dopo un breve trasferimento a Soči, a sette anni quella bambina si è ritrovata dirottata in Florida, nell’Accademia di Nick Bollettieri che l’avrebbe presentata al mondo come Maria Sharapova. Il duro lavoro, la determinazione, il coraggio esasperato l’hanno spunta a trionfare in 5 tornei del Grande Slam ai quali si aggiungono un Master, 3 vittorie a Stoccarda, 2 a Indian Wells e a Roma per un complessivo di 36 tornei. Ci sono poi altre 7 finali e 10 semifinali perse tra slam e Master, oltre a un argento alle Olimpiadi di Londra 2012; dove è stata la portabandiera per la Russia, onore che non era mai stato concesso prima a una donna. Finché, in vista delle Olimpiadi a Rio 2016, la WADA decise di affossare lo sport russo e Maria Sharapova divenne la vittima ideale per la lotta contro il doping. La squalifica e la macchia inevitabile che ne è conseguita non hanno però affossato Masha che, per quanto non sia (ancora) tornata ai suoi livelli, respinge lo spettro del ritiro e sostiene «verrà alle mie condizioni».
Ne è passata di pioggia sotto ai ponti dal lontano 1888, quando a San Pietroburgo venne fondato un pittoresco circolo tennis immerso nel bosco su un isolotto della Neva. Inevitabilmente, la storia avrebbe fatto il proprio corso ed il passaggio dall’impero zarista alla Russia comunista avrebbe macchiato di sangue anche il nobil gioco, ne avrebbe castrato la diffusione, umiliando i suoi esponenti limitandone i visti, sottraendone la maggior parte dei guadagni. Tagliata la cortina di ferro, crollata quella sorta di dittatura tesa a mortificare il talento dei suoi figli, il tennis russo esplose, definitivamente, in tutta la sua raffinata crudezza, gioia, dolore, genialità, armonia, dissonanze e contraddizioni. Il mondo ebbe così in dono personaggi unici, campioni indimenticabili, persone capaci di dettar legge sul campo, ma ancor di più nel cuore di chi si è lasciato ammaliare dal loro fascino.