Quando un bambino di quattro anni trascorre interi pomeriggi a osservare alcuni manovali intenti a costruire i campi da tennis per un circolo sito proprio di fronte alla pizzeria dei genitori, dovrà pur significare qualcosa. Non solo, una volta inaugurato il club, quel marmocchio, tutti i giorni entra di soppiatto, per posizionarsi davanti alla recinzione di quei rettangoli a osservare i suoi coetanei allenarsi. Di lui si accorge Jelena Gencic, la maestra del luogo: gli chiede se vuole provare a giocare. Il giorno dopo quel bambino magrissimo e silenzioso si presenta con la madre, Dijana, la quale, insieme al marito Srdan – un ex sciatore – gestisce la pizzeria più rinomata di Kopaonik, il paesino in cui si svolge la vicenda. Il punto è che Jelena Gencic non è un’insegnante qualunque, è la scopritrice di Monica Seles, e non ha dubbi sul fatto che quel Novak non sia un bambino qualunque, quell’allievo scovato così, per caso, è un prodigio. Per questo lo allena tutti i giorni. Non solo, gli mette in mano dei libri, per poi discuterli insieme lo porta al cinema, parla di obiettivi, del futuro. Forse sa che l’avvenire è suo, perché quel bambino effettivamente non è un semplice bambino, come non è neppure un ordinario Novak. Quel bambino, è Novak Djokovic.
Nato a Belgrado il 22 maggio del 1987; se Jelena Gencic ne riconosce le stigmate del predestinato, sono le bombe rigettate quotidianamente dalla NATO sul suo Paese a forgiarne l’indole da campione impavido e seppure dovrà andarsene da quella Serbia squarciata, offesa, diffamata, la salottiera Montecarlo non lo distoglierà dal suo obiettivo: riscattare il proprio popolo, la propria nazione, agli occhi del mondo. Diventato professionista nel 2003, sin da juniores si contende “un posto al sole”. con il coetaneo Andy Murray. Chiuse le stagioni 2003 e 2004 con in cassaforte due successi in altrettanti Futures organizzati in Serbia, più due Challenger, Novak Djokovic sfonda il muro della top 100 nel giugno del 2005, anno in cui fa proprio il Challenger di Sanremo e, oltre a raggiungere il terzo turno a Wimbledon, batte il suo primo top 10, Mariano Puerta, nel Master 1000 di Parigi-Bercy.
Seppure l’alba del 2006 gli porta in dono poche soddisfazioni, rassicurato dalla presenza ai box di Marian Vajda; al Roland Garros quel ragazzino segaligno dal tennis tutt’altro che brillante ma allo stesso tempo aggraziato da geometrie complesse, raggiunge i suoi primi quarti di finale in uno slam ma, opposto a Rafael Nadal, è costretto al ritiro dopo aver perso i primi due set per problemi alla schiena. Basta lasciar scorrere un mesetto e sulla terra olandese di Anersfoort Novak Djokovic vince il primo titolo ATP, rinforzato dalla finale conseguita la settimana successiva a Umago dove, sul 6-6, lascia la vittoria a Stan Wawrinka a causa di un problema respiratorio che lo costringe a un piccolo intervento chirurgico. L’annata del diciannovenne serbo si conclude con un altro successo sul cemento indoor di Metz, tra l’altro impreziosito con l’entrata in top 20.
Novak Djokvoic raggiunge le alte quote nel 2007 aggiudicandosi 5 tornei: gli ATP 250 di Adelaide e Estoril; l’ATP 500 di Vienna e i Master 1000 di Miami e Montreal – quest’ultimo sul n.1 Roger Federer. La svolta avviene tra il deserto di Indian Wells – dove diventa il primo teenager a raggiungere la finale dai tempi di Agassi, per lì perdere contro Rafael Nadal – e le onde di Miami dove batte in successione Nadal, Murray e la sorpresa Canas. Salutata la Florida da n.7 del ranking; a permettergli di chiudere l’annata come n.3 assoluto saranno anche le ottime prestazioni fornite negli slam in quanto accede alle semifinali del Roland Garros e di Wimbledon – sempre superato da Nadal – e la finale all’US Open – dove a stopparlo è Federer.
Non si schioderà mai dal terzo gradino per l’intero 2008 durante il quale trionfa per la prima volta in una prova del Grande Slam, a Melbourne, per quindi scoccare altre tre frecce di altissima qualità: la prima a Indian Wells, la seconda a Roma e la terza al Master. Eppure, nonostante la giovanissima età e gli svariati tentativi di prestarsi in “operazioni simpatia” – dalle imitazioni di alcuni colleghi ai tentativi di coinvolgere in siparietti pubblico raccattapalle; Novak Djokovic non riuscirà mai a conquistare per intero le platee o tanto meno a scardinare dal cuore degli appassionati il duo Federer-Nadal. Vuoi perché la Serbia non ha niente a che spartire con la ligia Svizzera o la solare Spagna, vuoi perché dalle sue corde non si irradiano le saette divine di Federer così come la sua gestualità non trasmette la schietta, persino selvaggia, voglia di combattere, di vincere, di Nadal. Il serbo semmai, viene vissuto come un ragioniere intenzionato a scardinare un sistema, desideroso di imporsi, di dominare coloro che a furor di popolo sono considerati “il tennis”.
Forse per variegati motivi risulterà quanto mai complesso e articolato il biennio 2009-2010 dove Novak Djokovic riesce a riporre in bacheca un anno 5 trofei – tra cui Parigi-Bercy – e l’altro appena 2 per quindi non dimostrarsi all’altezza a livello slam dove, su otto chance disputa due semifinali – US Open 2009 e Wimbledon 2010 – e una finale – persa a New York, stavolta per mano di Nadal. Emerge poi un’insidiosa intolleranza al glutine; il che lo spinge tra le braccia di una dieta bilancia – somministrata dal dotto Igor Cetojevic – che inevitabilmente ne compromette i risultati a breve termine. Agli inizi di dicembre del 2010 però, Novak Djokovic veste i panni da supereroe nella finale di Coppa Davis; battendo prima Gilles Simon, poi Gael Monfils, per infine incaricare Troicki di portare nelle casse della squadra quel punticino che permette alla Serbia di scrivere per la volta il proprio nome nell’albo d’oro della più prestigiosa competizione a squadre.
Il tripudio della Beogradska Arena di Belgrado si estende fino al giugno 2011. Novak Djokovic si rivela infatti imbattibile fino alla semifinale del Roland Garros dove si presenta con il biglietto da visita di campione dell’Australian Open, Dubai, del binomio Indian Wells-Miami, di Belgrado, Madrid e Roma, che equivalgono a 39 vittorie consecutive – e solo set persi lungo il cammino -; per quindi farsi inaspettatamente sorprendere da Federer. L’appuntamento con il primo posto del ranking è comunque rimandato solo al 3 luglio 2011 quando, sui campi verdi dell’All England Club batte all’ultimo atto Nadal e si elegge 25esimo n.1 del mondo nella storia del tennis. Novak continua a scrivere la storia sul cemento nord americano facendo suo Montreal e, senza scomporsi di fronte alla seconda sconfitta stagionale rimediata contro Murray, si mangia la grande Mela dove, dopo aver annullato due match point a Federer in semifinale, rimonta all’elvetico due set, per quindi mettere i piedi nell’incontr clou che lo vede dominare Rafael Nadal per alzare al cielo il suo quarto titolo del Grande Slam.
Sono pagine epiche da sfogliare anche quelle inerenti al terzo trionfo nello slam aussie. Dopo aver sistemato via, via Lorenzi, Giraldo, Mahut Hewitt e Ferrer, in semifinale impiega 4 ore e 50 minuti per scrollarsi di dosso Murray, mentre in finale batte per la settima volta consecutiva Nadal dopo una battaglia di 5 ore e 53 minuti; finita negli almanacchi come la più lunga finale slam di sempre. Seppure il Nole 2012 non è lo schiacciasassi della versione deluxe presentata nel 2011 – in quanto sulla terra viene regolarmente respinto da Nadal, a Wimbledon scivola in semifinale contro Federer perdendo così la cima della classifica, fallisce l’appuntamento ai Giochi Olimpici dove cede di schianto ai quarti a del Potro, per infine veder sfumare anche la finale dell’US Open con Murray -; si regala la Rogers Cup, Miami, Pechino e Shanghai, ma soprattutto, adagia sul proprio capo la corona di Maestro riprendendosi il trono.
L’ingresso nello staff di Boris Becker – fondamentale nel rendere il servizio del serbo un’arma più incisiva -, assicura a Novak Djokovic 7 tornei sia nel 2013 che nel 2014 impugnando due slam a stagione – il poker a Melbourne e il bis a Wimbledon -, prendendosi entrambi i Master e offrendo dimostrazioni di forza sparse che vanno dalla prima volta a Montecarlo nel 2013, alle due zampate ravvicinate tra Indian Wells e Miami nel 2014, al terzo sigillo a Roma e altri due Parigi-Bercy. Nella baraonda, perde altre tre finali e due semifinali slam, Nadal lo rovescia dalla poltrona di numero 1 per circa un anno ma, il 7 luglio 2014 torna in cima per rimanerci ben 122 settimane consecutive.
Dal gennaio 2015 al giugno 2016 Novak Djokovic delinea infatti intorno a sé l’immagine di giocatoreimbattibile: 17 tornei in totale tra cui cinque slam – consistenti in altri due Australian Open per un totale di 6, il terzo Wimbledon, il secondo US Open e il tanto desiderato e ancor più agognato primo trionfo al Roland Garros – che consisterà nel 12esimo slam assoluto e quarto consecutivo, seppure non nello stesso anno solare, rendendo possibile un fatto che non avveniva dai tempi di Rod Laver -. Nell’arco di quei magici 18 mesi stringe in pugno anche il quinto Master, grazie al raddoppio Indian Wells / Miami tocca quota 5 nel deserto e 6 in Florida, così come 6 saranno le imposizioni a Pechino, 4 in totale a Roma e alla Rogers Cup.
Era ritenuto l’uomo bionico, Novak Djokovic. Invincibile. Inossidabile. Imperturbabile. Nel tennis però, come nella vita, basta un niente e tutto cambia, assume forme differenti, cancella sicurezze, risveglia fantasmi. Difficile stabilire il peso che hanno avuto nella mente e nel cuore di Nole una catena di eventi: dalla morte del primo mentore Jelena Gencic al matrimonio con la fidanzata di sempre Jelena Rustic, alla nascita dei due figli, per arrivare al divorzio dall’intero Team da Vajda a Becker – ma non solo, dato che licenzia pure il preparatore atletico Gebhard Gritsch e il fisioterapista Miljan Amanovic – fino a sposare la causa Pepe Imaz, una specie di guru che ambisce a far emergere «la scintilla divina che è in ogni essere umano»; di certo, dal luglio 2016, qualcosa nel corpo del belgradese si è incrinato, qualcosa nella sua psiche si è lesionato.
Che sia per un accumulo di stanchezza fisica o psicologica, oppure per un affievolirsi degli stimoli, delle motivazioni o per un tutto sommato umano bisogno di allentare la presa, la sensazione a freddo è che la debacle a Wimbledon – dove al terzo turno sbatte contro Sam Querrey – e il flop alle Olimpiadi di Rio – in cui viene estromesso al match d’esordio da Del Potro – altro non fossero che il preludio di una crisi in procinto di scavarlo nel profondo e proseguita con le sconfitte anzitempo a Cincinnati e Parigi-Bercy; così come la vittoria alla Rogers Cup e le finali disputate a New York e al Master siano stati traguardi tagliati per forza d’inerzia.
Tornato a dettar legge nel primo torneo del 2017 a Doha, lo scompenso di Novak Djokovic tocca il suo culmine negli slam di Melbourne – dove si vede esporre il disco rosso da Istomin al secondo turno – e di Parigi – in cui si arrende a Dominc Thiem, incassando addirittura un 6-0 nella terza frazione -. In mezzo rimedia legnate un po’ ovunque e se a Roma riesce ad arrampicarsi in finale, lì si inchina a Zverev senza lottare. Non c’è pace per Nole che, se il 1 luglio vince il suo torneo n.68 a Eastbourne, dodici giorni dopo, durante i il match di quarti che lo vede opposto a Beredych, il serbo si ritira a inizio secondo set dopo aver perso il primo al tie-break a causa di un infortunio al gomito destro.
Sceso al quinto gradino del ranking, il 25 luglio annuncia la decisione di chiudere in anticipo la stagione 2017 affinché il suo avambraccio possa riposare e ristabilirsi al meglio in vista del 2018. Assunti Andre Agassi e Radek Stepanek, colui che si presenta in Australia è però l’ombra di Novak Djokovic così come, ora come ora, nemmeno un piccolo intervento chirurgico al gomito e aver liquidato i due coach per ripiegare su Vajda, hanno restituito al circuito il giocatore che era.
Si è impadronito di tutto, Novak Djokovic, senza però mai riuscire a prendere dimorare nel cuore della gente. Gli è stata rimproverata qualsiasi cosa: di essere scorretto, di essere un simulatore, di cercare di accattivarsi la simpatia del pubblico con trucchetti dozzinali, di essere una macchina, di essere il promotore di un tennis “povero di idee e contenuti”, di essere troppo attendista, troppo pragmatico, di essere un contro-attaccante che finisce irrimediabilmente per addormentare gli incontri, di aver esasperato l’importanza della fisicità. In pochi sono riusciti ad apprezzare, forse persino a riconoscere, quanto sofisticate siano le sue geometrie, quanto profonda sia la sua tattica; perché il difensivismo di Novak Djokovic è semmai una sorta di inganno dei sensi che, se lo si sottopone a un’analisi attenta, lo posa nelle condizioni di non subire mai gli avversari, di non essere mai propriamente in difficoltà e ciò non tanto nel singolo scambio, quanto nell’umore dell’incontro stesso, quasi che le sorti delle dispute che vedono coinvolte il serbo siano già scritte, che non esistano mai veri e propri momenti di sottomissione, bensì centellinate illusioni distribuite ai suoi avversari.
Tutto ciò che lo riguarda ha sempre assunto il sapore della colpa; a partire dall’essersi presentato ai cancelli dell’Olimpo come terzo incomodo, di aver sempre saputo che quella dei fab four era una favola da quattro soldi, che l’obiettivo era intromettersi tra il semidio Federer e il superuomo Nadal. Per farlo è stato disposto a tutto, persino a violentare il proprio talento, trasformandosi in un automa. Novak Djokovic si è strappato le vesti di dosso per farsi sentire, quasi dovesse far rumore per essere creduto in pieno, per essere apprezzato, accettato. La colpa di Djokovic è stata quella di aver scritto la parola fine al sogno di un’epoca che ha trovato linfa vitale nel dualismo sbilanciato tra un essere soprannaturale e un iberico dai bicipiti scolpiti, un’epoca assuefatta dal luogo comune che l’assolutismo del talento opposto alla generosità, alla forza potesse compensare ogni cosa, persino la noia.
Tedio di cui è da sempre accusato di essere portatore Novak Djokovic, l’uomo che dopo aver dominato il circuito, che dopo essere apparso destinato a diventare il n.1 più n.1 di sempre, si è inaspettatamente sgretolato, per scivolare tra le ombre di un declino i cui tratti restano indecifrabili, quasi fosse stato vittima di un anatema lanciato dalla storia che, di punto in bianco, ha deciso di respingerlo.