Il Belgio e il tennis: quando lo sport unisce le diversità

Qualche mese fa ho contattato i miei ex compagni di tennis in Belgio. Già da un po’ di mesi mi ero trasferito in un altro paese per lavoro, e volevo fare una chiacchierata con loro, per sapere come stavano. Ognuno di loro mi ha risposto con “sto bene, grazie; sai, vado a Lille a vedere la finale di Coppa Davis contro la Francia”. Dovevo aspettarmelo. A novembre 2015, in occasione della finale giocata in casa contro la Gran Bretagna, erano tutti al Palasport di Gent, vestiti di rosso, armati di trombe, bandiere, parrucche e quan’altro, a tifare per Goffin, Darcis e gli altri, sognando quell’insalatiera che non vincono da più di un secolo. Purtroppo per loro, il Belgio non ce l’ha fatta, né nel 2015, sconfitta dalla squadra di Sir Andy Murray, né lo scorso novembre, capitolando per 3-2 contro la Francia di Pouille, Tsonga, capitan Noah e gli altri. Ma in entrambe le occasioni, dopo la sconfitta sono rimasti tutti inchiodati sulle tribune di quei palasport, a rendere omaggio ai loro atleti, a dire loro “grazie lo stesso ragazzi, siamo fieri di voi!”. Ed alla mia osservazione sulla finale dello scorso novembre, “forse Darcis non avrebbe dovuto giocare, non era in forma” (ha perso facilmente in 3 set entrambi i singolari contro Tsonga e Pouille), loro mi hanno risposto “No! Doveva giocare lui, è un eroe, ci ha portato lui fin qui!”. Si riferivano ovviamente al quarto di finale giocato a Francoforte in Febbraio, dove, con Goffin assente, Darcis si è trasformato in Mr. Davis Cup, ha preso per mano la squadra, ed ha vinto incredibilmente i suoi due singolari contro Kohlschreiber in 5 set e poi contro Sasha Zverev in 4, portando il Belgio ad un’incredibile vittoria per 4-1.

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Steve Darcis è un tennista discreto, 2 titoli in carriera, best ranking al n. 38 del mondo, andato non oltre il terzo turno in uno Slam, e che nel circuito ATP ha qualche isolato exploit, come la vittoria su Nadal al primo turno di Wimbledon 2013, nulla più. Ma quando sente odore di Davis, si trasforma in un gladiatore implacabile e mai domo, e con il tifo del suo pubblico è capace di tutto. Darcis è un classico esempio del fascino della Coppa Davis, che riesce a trasformare anche tennisti poco più che mediocri e semisconosciuti in degli eroi nazionali. Ma la Coppa Davis, in Belgio, compie anche un’altra magia: là dove la politica fallisce, lo sport a livello nazionale riesce ad accomunare per una volta tutta la popolazione, normalmente divisa per ragioni storico-culturali.

Il Belgio, dove ho vissuto per cinque anni, è infatti un paese dalle mille contraddizioni e spaccature. Tre lingue ufficiali: francese, olandese, tedesco. La ben demarcata divisione tra Fiandre e Vallonia, dove i Valloni, francofoni, odiano i Fiamminghi, che parlano olandese, poiché un tempo la Vallonia era la regione ricca per via delle miniere, ma poi le miniere si sono esaurite e le Fiandre si sono via via arricchite. I Valloni parlano solo francese, i Fiamminghi dutch, inglese, un po’ di tedesco, che si parla nelle zone al confine con la Germania, ed un po’ di francese ma controvoglia. Se ti trovi nelle Fiandre e vai in stazione a prendere un treno per Liegi, Lièges in francese, e se per caso non sai che Lièges in dutch diventa Luik, quel treno non lo prenderai mai! Ogni città ha il doppio nome, scritto sui cartelli nella lingua della regione in cui ti trovi: Leuven/Louvain, Antwerp/Anvers, Gent/Gand, Mechelen/Malines, e non parliamo del cibo. Le pommes frites o de fritjes? La Carbonnade Flamande o lo Stoofvlees? Le moules o de mosselen? Quando sei sul treno, non appena si passa il confine Fiandre/Vallonia, la vocina dell’altoparlante cambia da olandese a francese.

E poi Bruxelles. La capitale, che in teoria dovrebbe essere bi o tri-lingua. Ed in teoria lo è. Se vai a Bruxelles, una delle prime cose che noti è che tutti i cartelli delle strade sono scritti sia in olandese che in francese. Ma poi, nella realtà pratica, per qualche motivo storico che ignoro, a Bruxelles si è deciso di parlare francese; ed è davvero difficile a volte, nei ristoranti, nei bar, in stazione, anche negli uffici istituzionali o nelle ambasciate, farti capire e comunicare. Capite che confusione? E stiamo parlando della stessa nazione! Un paio di decenni fa, ci fu un gravissimo disastro ferroviario in Belgio: due treni che viaggiavano in direzioni opposte hanno avuto uno scontro frontale, con risultato otto morti e una dozzina di feriti. Perché? Perché i due ferrovieri parlavano lingue diverse, olandese e francese, e non erano autorizzati a cambiare lingua. 30 secondi di incomprensione che hanno portato ad un disastro, e con entrambi i ferrovieri che non possono essere accusati di nulla. Si potrebbero apportare decine di altri esempi, ma credo basti per descrivere la situazione.

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Coppa Davis: il team belga nel 2015.

Questo è il Belgio. E allora, come si può anche lontanamente credere che ci possa essere un’identità nazionale in tutto ciò? La risposta è semplice: lo sport. Si, perché in Belgio, quando c’è di mezzo lo sport, ed un singolo atleta o una squadra che rappresenta la nazione, non ci sono più spaccature né linguistiche né culturali che tengano. Se è vero che lo sport unisce, il Belgio ne è l’esempio. Non ho mai visto un clima così elettrizzante e felice come quando il Belgio ha giocato i mondiali di calcio del 2014 in Brasile. Bandiere ad ogni finestra (inclusa la mia), gadgets della squadra, di ogni tipo, venduti o addirittura regalati ovunque. Negozi e supermercati che avevano il permesso di chiudere per due ore, il tempo della partita. Partite trasmesse sugli schermi da ogni bar di ogni piazza, gente vestita di rosso ovunque, tifo sfegatato. Ed ogni volta che la nazionale vinceva, festa grande nelle piazze, con orchestre e spettacolini, oltre a fiumi di buona birra, fino all’alba. Non importa se Lukaku è di origine africana, Nainggolan di origine Indonesiana o Vertonghen è un puro belga delle Fiandre. In quei momenti tutta la nazione ama allo stesso modo ed allo stesso modo si identifica in quegli 11 uomini in campo. E, come per il calcio, è lo stesso per la coppa Davis. La squadra di Davis conta due atleti francofoni (Goffin, Darcis), ed il resto fiamminghi (Bemelmans, De Greef, De Loore, Coppejans), eppure nessuno sembra badarci. Perché tutti identificano quegli uomini nella nazione stessa. E chiunque sarà in grado di fare il punto decisivo sarà amato ed idolatrato a prescindere, che sia fiammingo o vallone sia dai fiamminghi che dai valloni. Il Belgio, per me, rappresenta nel modo più puro l’espressione del “fair play” sportivo, dentro e fuori dal campo.

Coppa Davis: tifosi del Belgio con le gigantografie del volti dei loro beniamini.

Quando mi sono trasferito nelle Fiandre per lavoro, nel 2012, avevo smesso di giocare a tennis già da anni. Ma qui sono riuscito a ritrovare stimoli e motivazioni, grazie al modo in cui una nazione intera, a prescindere dall’etnia, vive ed interpreta lo sport in generale. Qui lo sport è per davvero un momento di festa e di socializzazione. Mai in Italia mi era successo di andare allo stadio, vedere una partita di calcio senza protezione alcuna fra campo e tribune, e sentirmi così sicuro, in mezzo a famiglie e bambini. Ho visto Belgio-Italia degli Europei di calcio del 2016 in un bar pieno di tifosi locali, ed ho potuto esultare al secondo goal di Pellè senza essere linciato o peggio; anzi, mi hanno guardato e mi hanno detto: “nice goal”. Incredibile. E non parliamo del tennis: agonismo si, ma sempre con estremo fairplay, anche fra i giovanissimi. Mai un punto rubato, i complimenti quando giochi una bella palla, e la meravigliosa regola (non scritta) secondo cui a fine match, il vincitore offre un drink allo sconfitto, e si chiacchiera amabilmente di tennis e altro, come facevano i tennisti australiani dell’era pre-Open. Ho conosciuto alcuni dei miei migliori amici in questo modo, cominciando con l’odiarci durante la finale di un torneo, per poi rispettarci, diventare amici ed anche compagni di allenamento, supportarci e consigliarci a vicenda. In Belgio ho trovato questi valori sportivi. E d è uno dei motivi per cui ho amato questo Paese che ha tante contraddizioni, ma che ha anche da insegnare cosa sia il vero spirito sportivo, capace di cancellare le diversità ed unire le persone.

Gabriele Congedo

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