L’involuzione del tennis italiano in queste ultime stagioni è motivo di seria preoccupazione tra gli addetti ai lavori. L’ultimo exploit di Fognini a Miami ha ridato fiducia in un un movimento che rimane comunque “vecchio” e senza valide alternative nell’immediato.
GIOVANI PROMESSE – Quelle che sono le alternative designate sono a farsi le ossa nei tornei minori, spesso regalando qualche ventata di positività, come sta facendo Matteo Berrettini nell’ultimo periodo. Il romano, classe ’96, probabilmente è il giovane di migliori speranze per il tennis tricolore, che a vent’anni è poco oltre la 250esima posizione del ranking. Non certo un futuro numero uno, come i vari Zverev e Kyrgios, ma siamo convinti che potrà dire la sua anche ad altissimi livelli. Il convento offre questo e poco più, anche in ambito femminile dove il tanto agognato passaggio di consegne non ha trovato ancora nessuno a cui cedere il testimone.
SGUARDO AL PASSATO – Molti appassionati e addetti ai lavori imputano questa involuzione del movimento nostrano a responsabilità della Federazione. Non intendiamo in questa sede dirimere questo tipo di controversie, affidando a questo articolo un altro tipo di approccio. Al di là di tutte le polemiche su finanziamenti ai Circoli e gestione da parte della Federazione di tutti gli strumenti che ha a disposizione per farli crescere, infatti, vogliamo porre l’accento su quella che a nostro avviso è una grande lacuna dei tennisti italiani contemporanei: il servizio. Eccezion fatta per alcuni, tra cui includiamo senz’altro Berrettini e Donati, gli altri molti prodotti del vivaio italiano non eccellono in questo fondamentale. Nelle scorse generazioni di tennisti, molti erano coloro che facevano del servizio un’arma in più: basta ricordare i vari Omar Camporese, o anche Diego Nargiso, o anche Claudio Mezzadri, svizzero ma cresciuto tecnicamente in Italia.
L’ARMA IN PIÙ – Sarebbe sbagliato limitare il servizio solo all’ambito maschile, in quanto come si vede nel tennis contemporaneo, anche nel settore femminile il servizio è sempre più un colpo fondamentale. Qui gli esempi non mancano: Williams, Sharapova, Pliskova ma anche le più brevilinee Halep, Cibulkova e Svitolina hanno in questo fondamentale l’arma in più. L’uso del servizio più come un colpo con poche pretese, con il solo scopo di “aprire” il punto, ha rosicchiato una fetta sempre più ampia alla filosofia secondo la quale diventa altresì imprescindibile, con il quale ottenere punti diretti e poco, per così dire, faticosi. Il motivo di ciò può essere imputato al fatto che la terra battuta, ancora troppo presente in percentuale nella penisola italica, non permette innanzitutto ai Maestri, e poi ai giocatori di considerare questo fondamentale come il più importante da perfezionare. Ed è risaputo che “snobbando” l’insegnamento già dai primi anni di avvicinamento al tennis, diventa poi più difficile migliorare un movimento già viziato.
MALEDETTA TERRA – L’insieme di fattori tecnici e “di superficie”, come poc’anzi descritto, limita dunque la crescita di giocatori completi, in grado di competere su tutte le superfici. La soluzione non sembra essere così lontana e impossibile da praticare: una squadra di coach nazionali di alto spicco, capaci di dare nelle opportune sedi (Accademie, Centri Federali, ecc) le giuste impronte ai campioni di domani, non limitandosi a sfornare solo qualche campione di Futures e Challenger, di cui in Italia, sulla terra rossa, abbondiamo. Sono infatti 18 su 22 i tornei Challenger italiani che nel 2017 si terranno su terra rossa. Non un male in sé per sé, ma per non costringere i tennisti emergenti a girare il mondo alla ricerca di varietà di superfici, con tutti i costi che comporta, forse anche qui qualcosa si potrebbe fare. Tante piccole cose, dalla formazione alle infrastrutture, che rischiano di creare un funesto collo di bottiglia sul potenziale fiorente movimento giovanile italiano.