Immaginate se domani mattina un marziano appassionato di tennis ritornasse sulla terra. Ci era già stato dall’inizio del tempo fino al 2000, abitandola nascostamente; per vent’anni ha dovuto occuparsi di altro, su un’altra galassia, e domani mattina ha in programma di rientrare sul suo pianeta d’origine. È un essere pensante, e in quanto tale sa che accendendo la televisione non vedrà più Kafelnikov, Agassi, Sampras e Santoro ma altri paladini della racchetta. È tuttavia molto entusiasta all’idea di gustarsi un’altra Hopman Cup, una competizione unica nel suo genere che lo divertiva molto per la particolarità del format. Domattina l’amico marziano si renderà però conto, ahilui, che il torneo dedicato a Harry Hopman è stato sostituito con una più prosaica e terrena Atp Cup. Poco male, potrebbe pensare. Amava molto anche la Davis Cup e attenderà fino a fine marzo per vedere il primo turno dei match del World Group. Avendo vissuto per molti anni nel cielo di Roma, in compagnia dell’amico di Ennio Flaiano, si sente ancora molto attaccato ai colori italici.
E chi dirà al marziano, adesso, che per la Davis Cup dovrà aspettare fino a fine novembre? E soprattutto che nonostante il nome sia rimasto identico, quella che si è giocata per la prima volta lo scorso anno è solo una lontana parente di quella che ricorda lui? Io no di certo, che di quegli esseri lì non mi fido mica. Magari si appassionerà anche a quella nuova che alcuni simpatici hanno ribattezzato “Piquè Cup”, ma sono quasi certo che ci metterà un po’ a riprendersi dallo shock. L’avventore, infatti, ricorda ancora con passione e, a questo punto, un po’ più d’un briciolo di nostalgia, il quarto di finale che aveva assunto i contorni di una sfida medievale più che d’un incontro di tennis, ovvero quello del 1982 tra McEnroe e Wilander. La partita durò sei ore e ventidue minuti. Oggi i match durano il tempo d’una cena. E pure senza il dolce. Se ne renderà conto presto.
Ma non è finita qui. Sempre a novembre, mese che a questo puntò diverrà drammatico per il marziano, c’è un torneo stranissimo. Un torneo in cui i set sono al meglio dei quattro game, i giocatori possono parlare col rispettivo coach con delle cuffie, gli spettatori si possono muovere sugli spalti e sul 40 pari non ci son più i vantaggi. E che si chiama NextGen Atp Finals. “Ma che razza di tennis è questo?”, potrebbe lecitamente pensare il nostro.
Almeno gli Slam, almeno quelli, spererebbe allora che sian rimasti esattamente come li aveva lasciati. La sua ultima scialuppa di salvataggio sono quei quattro tornei bellissimi rimasti identici da sempre, e che spererebbe lo siano anche nel 2020. Quasi. Ora ognuno fa il suo verso, e qui sarà meglio che Ziano (così lo chiamano gli amici) si munisca di carta e penna, perchè c’è da prendere appunti. Agli Australian Open hanno introdotto il super tie-break a dieci sul sei pari del quinto set, il Roland Garros ha deciso di restare uguale a come era nel 1999, Wimbledon (ebbene sì, Wimbledon) ha puntato sul tie-break a sette sul dodici pari al quinto set, e gli US Open hanno mantenuto il tie-break “normale”, quello sul sei pari del parziale decisivo, che esiste a New York dagli anni 70.
Il marziano penserà che siamo impazziti, ma poi qualcuno gli spiegherà più venalmente che tutte queste rivoluzioni sono state dettate dalla signora Pecunia. E allora capirà. Forse. Sta di fatto che anche lui, come noi amanti terreni, può fare solo una cosa: prenderne atto.