Nell’immaginario collettivo quella del coach è, esclusi i giocatori e le giocatrici, la figura che desta le maggiori curiosità, attenzioni e, in un certo senso, invidie. Gli allenatori si aggirano per i campi e i club più belli e attrezzati di tutto il mondo, interagiscono con i migliori giocatori, frequentano hotel di lusso e ristoranti di primo livello. Ma gli addetti ai lavori sanno bene che per la maggior parte dei coach quello appena descritto rappresenta un inarrivabile sogno dorato, tanto che la nota firma del “The Wall Street Journal” Tom Perrotta è arrivato a chiedersi più o meno provocatoriamente se quello del coach possa essere considerato il peggior lavoro nel mondo dello sport.
Nel suo articolo il giornalista americano sottolinea come sia difficile per il grande pubblico televisivo rendersi conto della reale quantità di lavoro che un allenatore si trova ad affrontare ogni giorno per circa quaranta settimane all’anno; fuori dai riflettori, infatti, i compiti e i doveri del coach si moltiplicano, passando dalla cura delle racchette e della dieta dell’atleta alle lunghe sessioni di allenamento sul campo o in palestra, fino ad arrivare alla delicata missione di supportare il proprio assistito nei momenti di crisi e di difficoltà fisica e psicologica o di grande rabbia e frustrazione.
Perrotta aggiunge che, ovviamente, un allenatore che collabora con giocatori di seconda fascia si trova a far fronte a responsabilità più numerose e più logoranti rispetto ai grandi coach; in questo senso vanno lette le dichiarazioni di Patrick Mouratoglou, volto noto del tennis internazionale, che ammette: “Se sei un allenatore incredibile è un lavoro fantastico, ma sei così così, allora è il peggior lavoro del mondo”. Gli fa eco Mats Wilander, ex allenatore dell’istrionico tennista russo Marat Safin, che dice: “Notate che gli allenatori camminano con l’iPod, come i giocatori? Il motivo è dovuto al fatto che devono essere rintracciabili tutto il tempo, ‘Hey, vieni qui, ho bisogno di racchette, mi serve questo, mi serve quell’altro”.
Un altro aspetto interessante su cui il giornalista statunitense cerca di fare luce è la retribuzione degli allenatori, un compito non semplice dal momento che i coach sono estremamente riservati nel dichiarare i loro guadagni, ma da quanto rivelato da alcuni la paga annuale parte dai 50.000 più spese nel circuito maschile e poco meno nel circuito femminile. Questa somma non comprende eventuali bonus legati al miglioramento in classifica del giocatore allenato e alla vittoria di titoli importanti.
Larry Stefanky, ex coach di John McEnroe e di Andy Roddick, ha dichiarato di aver percepito 1000 dollari a settimana ai tempi della sua collaborazione con la giovane promessa, poi non sbocciata, Tommy Ho. Lo stesso Stefanki senza giri di parole ha detto che è impossibile paragonare gli stipendi degli allenatori di tennis con quello che guadagnano i tecnici di basket o calcio e ha ammesso di essere stato particolarmente gratificato da Andy Roddick, al contrario di altri giocatori che, a fronte di un miglioramento evidente, non gli hanno corrisposto uno stipendio adeguato.
Non vi è dubbio che i coach dei top players quali Federer, Djokovic, Sharapova abbiano una vita piuttosto agiata, ma non bisogna aspettarsi cifre astronomiche. Un’eccezione da questo punto di vista è rappresentata da Brad Gilbert, ex coach di Agassi e Roddick, che nel 2006 firmò un contratto con la federazione britannica, che gli garantì un compenso di circa 2 milioni di dollari per 2 anni di lavoro, per lo più per allenare Andy Murray. Lo stesso Gilbert, in un interessante articolo pubblicato nel 2008 su Forbes, mette in evidenza alcune caratteristiche peculiari dei contratti nel mondo del tennis, come l’assenza di figure intermedie tra giocatore ed allenatore (come può essere quella di un general manager in una squadra di basket) e, di conseguenza, la fragilità di questo tipo di contratti, molto spesso di durata limitata ed estremamente elastici. Proprio per questo motivo lo storico coach di Agassi ammette di apprezzare particolarmente la scelta sempre più frequente delle singole federazioni di instaurare partnership solide con allenatori di buon livello, in modo da garantire al coach maggiore stabilità economica e al movimento tennistico la possibilità di svilupparsi con maggiore efficacia.
Gilbert, però, tiene particolarmente a sottolineare, al di là delle diversità di remunerazione tra i vari allenatori, la grande passione che anima queste persone, completamente dedite al loro lavoro e accomunate dall’unico obiettivo di formare, plasmare e costruire atleti di alto livello. In molti casi la gratificazione sportiva conta più di quella economica.