“Vedi, oggi in allenamento ho detto ad uno dei miei ragazzi: ‘hai una grande tecnica, ma quando giochi non sto mai tranquillo’. E questa è una sensazione che ho spesso qui in Italia, che è un paese pieno di giocatori di talento, che hanno un grande bagaglio in termini di colpi e creatività, ma che rispetto agli argentini mancano di solidità mentale e anche fisica”.
Comincia così l’intervista a Sebastian Vazquez argentino classe 1983 di Adrogue, una città di 30mila abitanti situata nella provincia di Buenos Aires coach della Tennis Training School che, nella sua carriera da tecnico, ha avuto l’opportunità di seguire alcuni tra gli azzurri più promettenti.
Inutile dire che il tennis ha recitato da sempre un ruolo di primo piano nella sua vita. “Si, ho sempre giocato a tennis, a 14 ero tra i primi 30 in Argentina insieme a gente come Nabaldian e Coria, anche se non ho mai pensato che il tennis potesse essere il mestiere della mia vita, almeno come giocatore. Ho avuto però la fortuna di avere come compagno di circolo un certo Gaston “el Gato” Gaudio, un atleta vero, che ha contribuito a darmi dei riferimenti, in primis, in termini di intensità degli allenamenti. Un termine di paragone che è rimasto importante ancora adesso, nella mia attività di coach”.
Intanto nel 2002 in Argentina viene dichiarato il default, gli investitori stranieri abbandonano il paese e lo stato sudamericano si ritrova in una delle più grandi crisi della sua storia.
“Si, quella fu la molla che mi fece scattare la voglia di andare in Europa a provare quest’avventura. Avevo dei contatti in Spagna, a Madrid, dove viveva il mio miglior amico e così partii.
Mi sono allenato prima a Madrid e poi a Barcellona, in una bellissima accademia a Castelldefels. Tutto bello, per carità, ma era costoso e io non potevo permettermi di tornare in Argentina dopo 3 mesi. Così da li mi trasferii in Francia dove c’erano tanti tornei tipo gli Open italiani, con la possibilità di guadagnare un pochino di più. Lì ho vinto qualche torneo, ho iniziato a farmi notare fino a giocare qualche campionato a squadre.
Insomma una bellissima esperienza in cui ho provato a fare la vita di un professionista e pur sapendo che prima o poi questa esperienza sarebbe terminata, mi impegnavo sempre al 100%”.
E quando già stavi pensando di tornare in Argentina e riprendere gli studi universitari succede qualcosa.
“Ero in Italia a Chieti e mi iscrissi ad un torneo a Porto San Giorgio nel circolo locale. Lì ho conosciuto la famiglia Quinzi che mi chiese di seguire Gianluigi che all’epoca aveva 10 anni.
E’ stato solo in quel momento, quando accettai, che iniziai a prendere in considerazione una carriera da coach. Gianlugi aveva già una schoolarship che gli consentiva di allenarsi in alcuni periodi a Bradenton, all’accademia di Nick Bollettieri, ed è ovvio che poter stare a contatto con un coach di quella levatura mi ha permesso di innamorarmi di questo mestiere ed anche di imparare tanto, rendendomi anche conto di cosa significhi essere allenatore e delle tante difficoltà di questo mestiere. Di Bollettieri mi colpì l’umiltà, iniziava ad allenare alle 5.30 del mattino, ma mi colpì soprattutto il modo (che poi avrei riscontrato in tutti gli allenatori più grandi con cui avrei lavorato in seguito) di approcciarsi ad un ragazzo come me. Lui o Brad Gilbert, che passava ogni tanto all’accademia, mi hanno trattato alla pari, sebbene fossi un “signor nessuno”. La stessa umiltà e la disponibilità all’ascolto, di quando, una volta tornato in Italia, ho ritrovato in Piatti e Gorietti. I grandi coach mi hanno insegnato ad amare il mio mestiere, anche attraverso la loro apertura mentale”.
Ritornando a Gianluigi Quinzi, che opinione ti sei fatto sulle sue qualità e sulle sue potenzialità?
“È un grande lavoratore, è uno dei pochi ragazzi che ho conosciuto con una seria cultura del lavoro, una virtù che è raro trovare in ragazzi cosi giovani. Mi auguro che possa crescere, ma deve essere paziente, deve continuare a lavorare con calma e tranquillità. Così facendo arriverà la sua maturazione e potrà arrivare in alto. Forse il suo entourage si aspettava un exploit più precoce a cui neanche lui era pronto. Ricordiamoci sempre che nel tennis è molto difficile emergere e anche se si primeggia nel mondo junior, cambia tutto in quello degli adulti”.
Una volta terminato il rapporto di lavoro con Quinzi come è proseguito il tuo percorso?
Ho continuato a lavorare a Porto San Giorgio dove ho creato un piccolo polo di agonisti: negli anni sono passati tra gli altri Stefano Travaglia, Gianluca Quinzi, Elisabetta Cociaretto e Silvia Chinellato.
Parallelamente, insieme al tecnico Luca Sbrascini, ho iniziato a collaborare con il Cpa di Jesi in cui si allenavano i migliori ragazzi delle Marche, (Ramazzotti, Battista, De Santis, Giunta…) e quindi nel 2013 mi sono trasferito a Jesi con un nutrito gruppo a cui si è aggiunto Travaglia, di ritorno dall’Argentina, il quale, seppur in quel contesto non ci fossero compagni di allenamento del suo livello, si fidava di me e del preparatore atletico Rodrigo Zalynas.
In quella stagione, dopo aver fatto un’ottima preparazione, Stefano ha inanellato una serie di risultati che lo hanno portato da 380 quale era fino al suo best ranking di 197.
Cosa possiamo aspettarci da Travaglia, uno dei prospetti del tennis azzurro su cui c’è maggiore aspettativa?
“Stefano sta attraversando quella fase in cui si passa da ragazzo a uomo e quando maturerà arriveranno anche i risultati anche perché il suo livello di gioco è ottimo. Ripeto, deve solo credere di più in se stesso, prendersi le sue responsabilità”.
Poi nel 2014 la scelta di trasferirvi alla Tennis Training di Foligno.
“Si a Foligno oltre alla bellissima struttura, Stefano ha trovato la disponibilità tecnica ed umana di Fabio Gorietti e Fabrizio Alessi ed anche per me si è trattata di una nuova esperienza perché per la prima volta ho iniziato a lavorare in un gruppo.
La Tennis Training la conoscevo dal 2011, prima che diventasse quello che è oggi. Li avevo sempre ammirati e loro già in passato mi avevano chiesto di collaborare. Lavorare in team è certamente diverso, ma qui ognuno può dare il suo apporto, c’è un clima di confronto continuo e mi è stata conferita fiducia sin da subito, permettendomi di poter gestire situazioni importanti. Sentire la fiducia di Fabio Gorietti che è una persona che ascolta, riflette su quello che gli viene proposto e non ha paura nel dare carta bianca, lo ritengo fondamentale ed è certamente un approccio vincente.
Ci tengo a sottolineare che la Tennis Training è un centro in cui si lavora duro, che di recente è stata nominata dalla Fit seconda scuola tennis d’Italia, ma questo non mi meraviglia perché qui si respira un’apertura mentale che facilita la crescita. Da parte mia mi impegno al massimo per cercare di cambiare la mentalità dei ragazzi e dei genitori. Il nostro compito è fargli capire subito l’importanza della cultura del lavoro che non è necessaria solo per il tennis, ma per la vita. Perché avere una mentalità vincente, ambiziosa, essere autonomi, possedere un sogno da raggiungere è fondamentale ad ogni livello. Inoltre sto cercando di ampliare la rete degli scambi internazionali che abbiamo. A Febbraio andremo in Francia con maestri ed allievi, in estate sto organizzando uno scambio simile in Spagna. Tutte esperienze che, attraverso il confronto con altre realtà, ci faranno certamente crescere”.
Come vedi il tennis italiano e come sta lavorando secondo te la FIT?
“La Federazione sta facendo bene attraverso l’istituzione dei Ctp e Cpa e anche tramite i prestiti d’onore. La formazione da istruttore che ho ricevuto qui è ottima. Ovvio che il non aver raggiunto, nel settore maschile, dei risultati ad altissimo livello nel recente passato, porta ad avere un certo disorientamento. Da noi, in Argentina, la generazione dei Gaudio, dei Puerta ci ha dato tanto, ci ha fornito soprattutto una linea da seguire nella preparazione tecnica. In Italia forse ci dovrebbero essere più Lorenzi, cioè degli esempi positivi di chi ha fatto della cultura del lavoro il proprio marchio di fabbrica”.
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Sebaaaa hai saltato i due anni a Chieti con Galli….