Sul 2-0 del secondo set probabilmente non un solo spettatore fisicamente presente sul Philippe Chatrier o seduto davanti alla TV di casa, avrebbe scommesso che Simona Halep, alla fine della partita, avrebbe vinto. Per la quarta volta, la seconda consecutiva, il sogno più bello, quello che ogni tennista coltiva dentro di sé, le stava nuovamente sfuggendo di mano. La sua avversaria, Sloane Stephens, era in perfetto controllo del match, sicura, paziente e freddamente determinata a portare a casa il secondo slam della carriera, che le sarebbe valso come una sorta di passaggio di consegne: dopo le sorelle Williams l’americana più forte del circuito WTA sarebbe stata insindacabilmente lei. Ma forse Simona, trovandosi per la quarta volta sull’orlo del baratro, in quel momento ha realizzato che se voleva vincere doveva andare a prendersi la coppa di prepotenza, senza chiedere il permesso, senza aspettarsi che la sua avversaria le aprisse la porta e la lasciasse passare escludendo una qualche resistenza. E in quell’istante di smarrimento, appena dopo quel break travestito da un gancio sinistro in pieno viso, qualcosa è cambiato. Prima ha mantenuto il servizio, poi ha breakkato la statunitense, in seguito ha nuovamente mantenuto la battuta e poco dopo ha subito un contro-break ma, contrariamente alle volte passate, non si è scoraggiata. Ha continuato a giocare game per game, da regina della difesa è diventata apprendista d’attacco e i colpi hanno iniziato ad emanare un sapore ed un profumo diverso, un cocktail misto di profondità e aggressività. Inebriata da tale bevanda, ha sfruttato la pressione sentita da Sloane di servire per rimanere nel set, l’ha fatta correre (dopo un set e mezzo in cui le tirava addosso e quella rispediva al mittente con ancora più forza) e ha concretizzato il set alla prima occasione disponibile. La Simona dello scorso anno avrebbe certamente sentito il peso della chiusura, la tensione di dover completare l’impresa e forse si sarebbe piazzata a fondo campo e avrebbe atteso qualche regalo, perché rischiare non sempre conviene. Invece la nuova Halep ha continuato a non pensare e a giocare; si è trasformata in difensivista e contrattaccante allo stesso tempo, in amica della rete quando, sfidata ad affrontarla, l’ha accarezzata tirando fuori dal cilindro una volée deliziosa e dimostrando a Sloane che da quel frangente in avanti il match era suo e per strapparglielo non sarebbero bastate una manciata di palle corte. Poi il servizio, più solido, più preciso e meno intuibile ha completato l’opera, assieme alla voglia di vincere, quella stessa brama che durante tutto il torneo l’ha portata a strapazzare avversarie come Mertens e Muguruza e a resistere a giocatrici fastidiose come Riske e Kerber. La Simona Halep di oggi è una giocatrice diversa, matura e soprattutto umile. Una di quelle ragazze che sa cadere e sa rialzarsi, uno di quegli scriccioli capaci di piangere per giorni per poi tornare a sorridere ancora più fragorosamente di prima, uno di quei pulcini alti 1.68 che volano alla stessa altezza degli orsacchiotti di 1.85; insomma una numero uno non per caso, ma per costanza, rendimento, continuità, consistenza di gioco, motivazione e voglia di offrire sempre il meglio di se stessa.
Sono felicissima di aver raggiunto questo traguardo, stavolta ho giocato con un piglio diverso. -ha detto Simona intervistata dalle leggende Mats Wilander e Chris Evert- Di solito sono sempre molto severa con me stessa e non mi perdono mai gli errori commessi. Lo scorso anno avevo quasi vinto e invece di afferrare la coppa mi sono arroccata in difesa e ho rimesso in partita la mia avversaria che ha fatto come me, non mi ha perdonata. Stavolta ho cercato di avere un atteggiamento diverso e di essere più buona con me stessa. Infatti dopo il break del secondo set ho deciso che ciò che fin lì avevo sbagliato, in tattica e scelte, non contava più e che dovevo dare una svolta alla partita. Ho servito meglio, mi sono avvicinata alla linea di fondo, sono stata più aggressiva e non ho pensato a nulla se non a giocare punto per punto. Ho messo in pratica ciò che il mio coach mi ha sempre detto: non parlare, non pensare, stai zitta e gioca. Oggi è andata bene, ho pianto tanto in passato, ma questa volta, finalmente, erano lacrime di gioia.
Il pubblico del Philippe Chatrier ha omaggiato Simona come forse non accadeva da anni, in una finale. L’emozione, la gioia per aver assistito ad un pezzo di storia del Tennis, il vedere quella piccola grande donna non darsi mai per vinta e salire sugli spalti e abbracciare il team, la famiglia e anche qualche spettatore, hanno impreziosito uno scenario già bello di per sé, ma reso ancora più speciale dalla certezza che ieri, a Parigi, è successa la cosa giusta, che alla fine ha vinto colei che ci ha sempre creduto nonostante le antiche sberle. A Sloane Stephens ovviamente non si può non dire brava per aver giocato una finale pressoché perfetta per un set e mezzo; a Simona va detto bravissima per essere riuscita a non annegare in un mare di brutti ricordi che da oggi avranno un sapore diverso, ovvero quello della consapevolezza che anche il saper soffrire e il saper accettare le sconfitte per poi risorgere è una forma di talento che, presto o tardi, non può far altro che condurre alla vittoria.