Vincenzo Santopadre, attuale coach della giovane promessa del tennis italiano maschile Matteo Berrettini ha rilasciato alcune dichiarazioni interessanti a Il tennis italiano, una delle testate giornalistiche più importanti che si occupa di questo sport; le riportiamo qui di seguito.
Santopadre è entrato a far parte del team di Matteo quando quest’ultimo era ancora un ragazzino: inutile dire che di strada ne hanno fatta sin da allora; ma a Vincenzo non bastano gli ottimi risultati già raggiunti. Infatti, afferma che non può “essere stupito dei suoi progressi, forse sono troppo crudo ma mi aspetto di tutto da lui. E lui mi ha aiutato a pensarla così“.
Successivamente parla di quella che è la sua visione del tennis: “Per me il tennis è come una maratona, non i 100 metri. A volte si può passare per menefreghisti, o all’antica, ma sono convinto che, se rispetti i tempi, riesci a gestire meglio le situazioni complicate. Secondo me, il tennis junior non è il tennis: se l’obiettivo è diventare numero uno under 18 è un conto, ma se devo creare un giocatore professionista, allora il percorso è più lungo. Oggi c’è un meccanismo perverso che ti porta ad accelerare i tempi, invece a me piace rispettarli con equilibrio: Matteo, per esempio, era in ritardo fisicamente e andava pure bene a scuola, un anno parlai col padre quando forse era già pronto per il passaggio. Ma gli feci aspettare un altro po’: solo a 17 anni ha aumentato l’attività junior, e a 18 è riuscito a fare gli Slam che, invece, anche da under 18 sono utili“.
In seguito, ripercorre brevemente il cammino compiuto dai due finora: “Da junior non importava vincere: i tornei vanno fatti, certo, perché la gestione di tensione e agonismo la alleni solo in torneo. Ma devi saper miscelare le cose, come un cuoco. Adesso, che è un giocatore, ovviamente i tempi per allenarsi sono ristretti: puoi ovviare facendo in modo che durante il torneo tutto, anche il riscaldamento, venga interpretato come allenamento. Matteo ha vissuto sempre le cose in modo spugnoso, è stato eccezionale. Però non posso dire di essere stupito dai suoi progressi, forse sono troppo crudo ma mi aspetto di tutto, da lui. E lui mi ha aiutato a pensarla così“.
Fa poi delle considerazioni sullo stile di gioco del suo giocatore: “Non è impensabile giocare a tutto campo. Più cose sai fare, meglio è. Sicuramente il tennis di oggi va a velocità centuplicata, l’azione è più svelta del pensiero. E un back di rovescio può sembrare antico: ma se lo usi bene, serve. Anche le palle corte: per ora le fa piuttosto male, però le fa e sono contento che le usi“.
Conclude: “A me piace che, in campo, ci siano giocatori pensanti, che sappiano leggere le situazioni, interpretare i tempi del match. Bisogna saper fare la partita, perché un conto è saper giocare a tennis, un altro è essere giocatori di tennis. Ci sono colpitori fantastici che, magari, non hanno capacità emotiva, non sanno cogliere i momenti. Come si allena tutto questo? Eh, è uno dei tanti talenti. Puoi averlo di tuo, ma va sperimentato: l’avversario, in fondo, è uno strumento che ti mette alla prova, è uno che ti pone problemi. Se tu hai tante soluzioni riesci a dare risposte, a risolverli e rimandargliene altri per cui, forse, lui non è attrezzato“.
Qui potete trovare il resto dell’intervista.