Al termine delle Olimpiadi celebrate e Rio De Janeiro lo sport italiano si ritrova, ancora una volta, nella top 10.
Le nostre 28 medaglie ci ricordano che siamo un popolo di sportivi. Eureka dunque. Si festeggi questo straordinario risultato, per altro, raggiunto in tempi di crisi, una crisi che morde e colpisce al ventre in modo duro una nazione da sempre capace di barcamenarsi tra genialità e disastri. Una riflessione un po’ più attenta avrebbe imposto una disamina di quelle medaglie: i cosidetti sport minori ci portano un numero elevatissimo di allori. Tra gli sport più mainstream, sia mediaticamente che sotto il profilo dei praticanti effettivi, le briciole: nuoto, pallavolo, ciclismo.
Nell’atletica leggera, a memoria, credo un paio di finali e poco più. Certo, risultati che tecnicamente hanno il loro peso, ma per il grande pubblico, non esistono, semplicemente.
Ancora più interessante sarebbe capire dove e come la stragrande maggioranza degli atleti medagliati (ma anche dei non-medagliati) svolge la sua attività sportiva. Con l’appoggio dei pochi soldi che hanno le federazioni più piccole, che non tesserano il primo che passa, per intenderci, e che conseguenzialmente prendono in proporzione gli agognati fondi CONI, e con l’appoggio di gruppi sportivi privati, o, in maggioranza, dei gruppi sportivi di Guardia di Finanza ed Esercito, o in genere militari. Così, si allenano. Così ci portano medaglie. Un presidente del CONI attento ai risultati e meno ai baciamano questo ci dovrebbe dire. Raccontandoci degli impianti per fare atletica leggera che in Italia si contano sulle dita di due mani. Dei sacrifici del canottaggio e dei tiratori d’arco. Insomma, di un miracolo sportivo che si compie ogni 4 anni (a Londra le medaglie furono ancora di più) lontano dai riflettori e tra innumerevoli difficoltà. Ce lo diceva uno che di sport (e medaglie) se ne intendeva: Pietro Mennea. Non servono grandi eventi, ma investimenti costanti.
E mentre l’Italia resta attanagliata da quella crisi economica così tristemente nota, ci ritroviamo a discutere se fosse necessario presentare questa candidatura per le Olimpiadi di Roma, a pochi anni di distanza dallo stop che l’allora Presidente del Consiglio Mario Monti impose all’allora sindaco di Roma Gianni Alemanno. Uno stop motivato dal rigore, dal buon senso amministrativo, di una nazione che si trovava ad un passo dal default, dalla catastrofe sociale. Una situazione per niente diversa da quella che oggi viviamo, numeri alla mano.
Ma siccome “tutto va bene, madama la marchesa”, l’orchestra dello sport italiano, a reti unificante, suona, mentre il Titanic dei risultati e degli impianti affonda: uno sguardo a Roma, al meraviglioso stadio del nuoto, alle Vele di Calatrava, e alle perdite dei mondiali di nuoto 2009 ci consiglierebbe di pensare ad impiegare risorse per sistemare l’esistente e far crescere un movimento sportivo degno di una nazione che si picca di essere tra le grandi del pianeta, piuttosto che pressare un sindaco che da sempre aveva espresso le sue perplessità e che deve far fronto ad un debito colossale che grava sui romani per 13 miliardi di Euro.
La favola della cicala e della formica è sempre d’attualità, con la variante manageriale, tanto appetitosa quanto di moda in Italia, specie quando i soldi da amministare sono pubblici. Grazie, ma avremmo già dato.