Condividiamo volentieri uno splendido racconto dello scrittore Edoardo Nesi, pubblicato nella raccolta Smash, edito dalla casa editrice La Nave di Teseo. L’autore racconta il suo rapporto viscerale con il tennis, una storia di odio e di amore per il nostro sport. Che è molto più di un semplice gioco.
Mi garbava battere e venire a rete
Mi garbava battere e venire a rete, questo lo ricordo bene.
Fissare l’avversario in attesa dall’altra parte del campo, annotare la sua posizione e la distanza dalla riga di fondo, decidere dove servire e mettermi di fianco accanto alla riga di fondo senza sfiorarla, vicino al corto moncone di linea che ne segna il centro; far rimbalzare la pallina a terra con la mano sinistra per tre volte, avvicinarla per un attimo al fusto della racchetta a mo’ di rito propiziatorio e lanciarla nell’aria vuota davanti a me sperando che la traiettoria non venisse fuori troppo bassa o troppo alta o troppo avanti o troppo indietro o troppo di lato mentre le braccia compivano lo stesso movimento e per un microsecondo sembravo il Nazareno in croce, la testa volta verso il cielo a cercare la palla e gli occhi sgomenti, ma subito la posa si scioglieva e il gomito destro si fletteva e portava la racchetta giù fino alle scapole mentre il corpo avviava a ruotare intorno al perno del piede sinistro, e il ginocchio sinistro si piegava alla ricerca della forza di scattare subito dopo verso l’alto, e il braccio destro accelerava per condurre la racchetta all’impatto con la pallina che intanto stava concludendo la sua ascensione mentre il sinistro scattava indietro come impaurito, per lasciare spazio al colpo che – quand’ero giovane, certo – avveniva in elevazione. […]
Continua a leggere su “IL” – Sole 24 Ore