15 agosto 2013. La carriera di Marion Bartoli conosce il suo epilogo in un’afosa serata americana, a Cincinnati. Giusto una trentina di minuti dopo aver perso e stretto la mano a una delle nuove starlette del circuito, la romena Simona Halep, ecco l’annuncio, tra le lacrime, sotto agli sguardi indiscreti dei giornalisti che, forse senza nemmeno vivere fino in fondo il momento, si sono affrettati a catapultare la notizia in tutti gli angoli del pianeta. Marion Bartoli si ritira.
Attoniti, confusi, spiazzati. Nonostante tanta demagogia post-Wimbledon, la francese è sempre stata guardata con circospezione. Marion Bartoli «quella in sovrappeso», Marion Bartoli «quella nevrastenica», Marion Bartoli «quella con il padre invadente che le ha rovinato la vita». Se nel 2007, anno della sua prima finale sui verdi campi del All England Lawn Tennis and Croquet Club veniva chiesto alla gente cosa ne pensasse della transalpina, si aveva in risposta questi tre epitaffi. Apertamente. Se una trentina di giorni fa, veniva posta la stessa domanda, ti si riversavano addosso come replica all’incirca le stesse identiche parole, solo con la mano di fronte alla bocca, biascicate. Perché Marion ce l’aveva fatta, era arrivata lassù dove in poche, in pochissime arrivano.
Marion Bartoli che vince Wimbledon. Marion Bartoli che riceve in dono uno slam perso da Serena Williams, da Agnieszka Radwanska e poi via, via fino ad appuntare a ritroso i nomi delle grandi sconfitte uscite di scena nel “giorno dell’Apocalisse londinese”, nel mercoledì di secondi round più funesto della storia di Wimbledon. Lei, Marion, che poco più di due mesi dopo avrebbe chiuso la saracinesca con una sconfitta subita al primo turno.
Forse è stato il fato a piazzare di peso Marion Bartoli in quel corridoio favorevole, a predisporle la via, ad abbattere gli ostacoli troppo ingombranti. Marion, che doveva fare solo una cosa e l’ha fatta: stringere i denti, sopportare il dolore che le attanaglia il corpo, figlio di una miriade di infortuni che hanno generato una catena di stop, seguiti da altrettanti rientri ed ancora più ricadute. Non a caso, il primo motivo a cui allude per giustificare il ritiro è: «Il mio corpo mi ha abbandonata. Cadeva a pezzi da tempo e per tenerlo insieme ho dovuto sopportare molto dolore. Probabilmente ho dato tutte le energie che mi rimanevano durante le due settimane di Wimbledon».
Marion Bartoli è nata il 2 ottobre del 1984 a Le Puy-en-Velay, un paese di appena 20.000 anime attraverso il quale passa il cammino di Santiago di Compostela; il lungo percorso che i pellegrini intraprendono sin dal Medioevo per raggiungere il celebre santuario, in Spagna. Il viaggio di Marion però, più che un pellegrinaggio spirituale, è stato un’Odissea. Proveniente da una famiglia di origine corsa, durante una finale del Roland Garros tra Steffi Graf e Monica Seles, la piccola Marion rimane abbagliata dalla ferocia della belva di Novi Sad e in cuor suo prende piede un desiderio: diventare come lei. Senza pensarci due volte lo esprime all’essere terreno che adora più di ogni altro: suo padre. Walter Bartoli sacrifica la sua professione di medico e, probabilmente, anche tanto altro per sostenerla. “Papà Walter”, destinato a vedersi puntare contro il dito un po’ ovunque, l’uomo che tutti vogliono vedere come un orco, è forse il solo a credere veramente in quella figlia con la tendenza a ingrassare. Per questo la sprona, la sottopone ad allenamenti estenuanti, la priva di una vita normale, forse, ma in cambio la aiuta a realizzare il suo sogno.
Il 7 gennaio del 2006, Marion Bartoli conquista il suo primo titolo WTA ad Aukland dove supera 6-2 6-2 la russa Vera Zvonareva. L’anno dopo batte Justine Henin in semifinale a Wimbledon per poi cedere all’ultimo atto a Venus Williams. Nel gennaio del 2009 raggiunge i quarti all’Australian Open e, due stagioni più tardi, dopo aver superato Svetlana Kuznetsova, subisce in semifinale al Roland Garros la sconfitta più bruciante della sua carriera per mano di Francesca Schiavone. All’US Open non andrà mai oltre ai quarti di finale toccati nel 2012. In mezzo a tutto questo, i successi a Tokyo (2006) su Aiko Nakamura, a Quebec City (2006), dove rifila un doppio 6-0 a Olga Puchkova, a Monterrey 2009 dove annienta Na Li, a Stanford (2009) dove svetta ai danni di Venus Williams, a Eastbourne 2011 dove ferma Petra Kvitova e a Osaka 2011 dove si impone su Samantha Stosur. L’ottavo e ultimo alloro coincide con il nome inciso nell’albo d’oro di Wimbledon. Coincide con la storia.
Ci saluta Marion. Ci saluta dopo aver conosciuto la catarsi. Dopo aver messo una pietra sul suo passato. Dopo aver dimostrato che poteva vincere anche senza il padre, seppur avendolo ugualmente, necessariamente accanto. Dopo fatto vedere al mondo che no, non era una ragazzona nevrotica, bensì una donna matura, dotata di un particolare senso dell’ironia. Ci saluta dopo averci beffati. Ci saluta dopo aver trovato la sua Itaca.
6 comments
Bravos et courage pour 2018 Marion….
Insisto….Wimbledon vinto di fortuna e giocatrice senza talento
Sono d’accordo. Giocatrice costruita a tavolino che si è sacrificata oltre ogni limite. Probabilmente Wimbledon vinto per una serie di circostanze estremamente favorevoli
Suicidio mentale della Lisicki in finale e eliminazione delle top prima che le incontrasse
certo che se torna a buoni livelli significa che il wta è proprio messo male. Nel maschile un comeback simile sarebbe irrealizzabile
ma quei piedi sono i suoi?