«Si tratta di una decisione molto difficile, ma c’è molto da festeggiare perché in tredici anni di professionismo ho raggiunto vette che mai avrei pensato. Qualsiasi sport professionistico richiede il top della forma e io non riesco più a raggiungere gli standard che tante persone si aspettavano da me. Quindi è ora di dire basta». È con un videomessaggio scarno, distaccato, che Ana Ivanovic comunica al mondo il suo ritiro dal tennis ad appena ventinove anni, con 15 tornei WTA riposti in bacheca, tra cui un titolo del Grande Slam e nove settimane come n.1 del mondo.
La biografia di Ana Ivanovic narra che «c’era una volta una bambina nata a Belgrado il 6 novembre del 1987 il cui primo grande amore della sua vita è stato il tennis» . Tra leggenda e realtà, pare proprio che galeotto fu un match trasmesso in tv in cui vide giocare Monica Seles, tanto che papà Miloslav e mamma Dragana, sfiniti dall’insistenza della figlia, il giorno del suo quinto compleanno le regalano la tanto desiderata racchetta e, una volta scesa in campo, appare evidente sin da subito come l’infatuazione che Ana nutre per il tennis sia ricambiata anche da parte di quello sport che pare letteralmente scorrerle nelle vene.
Le difficoltà però non tardano a bussare alla porta. È il 1999 quando la NATO bombarda la Serbia costringendo Ana e il papà ad alzarsi all’alba perché, non potendo permettersi di prendere tutti i giorni l’automobile per raggiungere il centro sportivo devono andare in bicicletta. Inevitabilmente, i disagi si ingigantiscono nei mesi invernali, ma il gelo presente nei palloni è nulla a confronto di quando, dopo il crollo della struttura coperta, la piccola Ana, pur di allenarsi, si adatta persino a una piscina abbandonata riempita di terra rossa. Difficoltà che la temprano, ma che al tempo stesso la scuotono nel profondo, forse facendo sì che proprio in quella mente allenata a contrastare qualsiasi avversità germogliasse pure il suo punto debole e avessero libero sfogo una serie di emotività forzatamente trattenute.
Che da ragazzina Ana Ivanovic fosse ossessionata dal tennis e che la sua volontà di emergere fosse insidiata da una sorta di disagio interiore, lo testimonia il fatto che dopo la sua sconfitta ai Campionati Europei under 14 pianse per quattro ore, perché temeva che il suo manager e finanziatore l’avrebbe abbandonata non ritenendola all’altezza di diventare una professionista. Paranoia assolutamente ingiustificata dato che il suo mecenate non ha mai pensato per un attimo di lasciarla perdere, anzi, quando Ana ha quattordici anni le predispone la strada affinché possa trasferirsi a Berna, in Svizzera, insieme alla madre.
Fiducia ricompensata da Ana Ivanovic che sin dal debutto nel circuito dimostra di possedere tutte le le carte in regola per diventare una campionessa. Se nel 2004 fa il suo ingresso tra le top 100, il 2005 si rivela fondamentale per la crescita, sia tennistica che di fiducia; vince infatti il suo primo titolo WTA a Canberra e raggiunge i quarti di finale al Roland Garros, dove dopo aver sconfitto Amelie Mauresmo si arrende a Nadia Petrova. L’anno dopo Ana alterna match di altissimo livello, come quando sconfigge 6-2 6-3 Martina Hingis nella finale della Rogers Cup, a prestazioni mediocri ma, nonostante alcuni addetti ai lavori sostengano che la bellezza di Belgrado sia troppo incostante per compiere il grande salto; lei termina la stagione 2006 come n.14 del mondo.
Dopo il terzo turno raggiunto all’Australian Open 2007, la serba disputa in finale a Tokyo, mentre vince sulla terra rossa di Berlino dove supera Svetlana Kuznetsova al termine di un tiratissimo 3-6 6-4 7-6. Ana si presenta al Roland Garros da top 10 e, a conferma dell’ottimo periodo di forma, ha la meglio su Sharapova e Kuznetsova prima di inchinarsi in finale dinanzi a Justine Henin. Sembra finalmente essere riuscita a trovare una stabilità Ana Ivanovic che, grazie al servizio capace di toccare i 190 km/h e le accelerazioni di diritto, a Wimbledon annulla tre match point a Nicole Vaidisova prima di arrendersi in semifinale a Venus Williams. Gli ottavi all’Us Open, dove per l’ennesima volta deve piegarsi a Venus, la vittoria al torneo di Los Angeles e la semifinale al Master le consentono poi di chiudere l’annata al quarto posto del ranking.
Diventata Ambasciatrice dell’Unicef per il progetto School Without Violence, Ana Ivanovic può rivolgere uno sguardo più rilassato in direzione della sua Patria, finalmente uscita dagli anni bui della guerra: contrariamente alla madre, onnipresente al suo fianco, il padre e il fratello Milos, più piccolo di quattro anni, hanno infatti continuato a vivere a Belgrado. L’affascinante Ana può così concentrarsi sul 2008 senza patemi extra-tennistici e all’Australian Open si spinge fino alla finale dove cede il passo a Maria Sharapova. La belgradese è la n.2 del mondo quando, sul cemento di Indian Welles, il suo tennis pulito e potente le consente di salutare il deserto californiano con il trofeo in valigia. L’exploit yankee precede di qualche mese il suo trionfo più importante al Roland Garros dove, sedici anni dopo Monica Seles, un’altra serba conquista Parigi. Non solo, a vent’anni Ana Ivanovic diventa la diciottesima n.1 del mondo della WTA.
All’improvviso però, il suo tennis millimetrico va in frantumi. Ana si presenta a Wimbledon affaticata e rischia di uscire di scena al secondo turno contro Nathalie Dechy. Salvata da un net sul match point a favore della francese, dopo una maratona di tre ore la serba s’impone con il punteggio di 6-7 7-6 10-8. L’addio a Londra è comunque solo rimandato di un turno: al terzo round cede infatti alla n.133 del mondo, la cinese Zheng.
Seppure Vincent Van Gogh, pittore molto amato da Ana Ivanovic, considerava la notte più viva del giorno, sulla carriera della serba sembrano calare letteralmente le tenebre tanto che, nonostante la vittoria al torneo di Linz a ottobre, la piega incerta con cui si conclude il suo 2008 è nulla se confrontata al disorientamento che la assale nel 2009.
Sport crudele il tennis. Impietoso, ingrato. Da un livello di gioco costante, strepitoso, da una riga impensabile che ti porta a concretizzare quel punto capace di far girare l’incontro, da quel contropiede intercettato con la coda dell’occhio che ti fa recuperare e chiudere una pallina che finisce con lo scoraggiare l’avversaria, dal sentirti capace di fronteggiare qualsiasi situazione, mentale o fisica che sia; così, da un giorno all’altro, basta un niente ed ecco che tutto inizia a girare all’incontrario. I colpi che sembrano sgonfiarsi, la riga che si trasforma in un out di un millimetro, la fiducia che inizia a tremare; e poi ci arriva la stanchezza, i riflessi che si spengono appena, ma è sufficiente ‘quell’appena’ perché l’occhio rapace di un’avversaria capisca che non sei più tu; che da padrona sei diventata succube. E se le cose non cambiano, alla svelta, in un baleno s’innesca la fase successiva: non ti riesce più niente. Le palline non escono di un millimetro ma di metri, non si fermano sul nastro ma si afflosciano a metà rete, le gambe si fanno rigide e deboli insieme, non rispondono, e al cervello non arriva più ossigeno.
Dopo un 2009 spiazzate, con un solo risultato degno di nota ottenuto nella finale disputata e persa a Indian Wells contro Vera Zvonareva, nel 2010 Ana Ivanovic deve essersi sentita avvolta tra le fiamme dell’inferno in quella Parigi che aveva conquistato giusto due anni prima quando al secondo turno racimola appena due games contro Alisa Kleybanova. Incapace di accettare l’umiliazione del crollo, ma allo stesso tempo pure di ritrovare quel binario che l’aveva spinta in cima al mondo, Ana Ivanovic avrebbe finito con l’assicurarsi il bis a Linz e un successo al Masterino di Bali, vittoria quest’ultima che avrebbe ripetuto in un inappagante 2011. Tornata a disputare un quarto di finale in una prova del Grande Slam dopo quasi quattro anni in quel di New York, il 2012 può essere considerata una stagione all’insegna di quegli sbalzi d’umore che destinati a molestarla anche durante l’annata successiva.
Il riscatto viene messo in atto nel 2014. Alla prima uscita, ad Auckland, Ana Ivanovic torna ad alzare al cielo un trofeo dopo due anni e due mesi di digiuno. Nonostante battendo Serena Williams agli ottavi di finale dell’Australian Open Ana Ivanovic avesse seminato una distesa di promesse andatesi a infrangere ai quarti contro Eugenie Bouchard, il 6 aprile sarebbe tornata al successo a Monterrey, ad aprile avrebbe disputato una fantastica finale a Stoccarda – dominata su Maria Sharapova fino al 6-3 3-1 – per quindi ottenere il suo primo titolo sul manto verde a Birmingham e andarsi a prendere il solo continente che le mancava, il Giappone, imponendosi su Caroline Wozniacki al torneo di Tokyo.
Tornata in top 5, Ana Ivnaovic sembrava essere pronta a concedersi una seconda grande chance. Al contrario, non è riuscita a ottimizzare le vampate che animavano il suo talento cristallino, finendo nuovamente con il piegarsi al cospetto di quelle insicurezze, di quei freni palesemente autoimposti, che hanno finito con il corrodere quanto restava della campionessa che era, ma ancor di più che avrebbe potuto essere. Lo splendido ultimo atto perso contro Maria Sharapova a Brisbane e una semifinale raggiunta al Roland Garros, tutto nel 2015, sono gli ultimi risultati degni di nota di quella ex reginetta di Parigi i cui appetiti, le cui potenzialità non erano più in grado di trovare un riscontro sul rettangolo di gioco.
Del disastroso 2016, si salva, forse, il matrimonio con Bastian Schweinsteiger e la tenacia dimostrata, almeno a parole, di non arrendersi, di non far sì che la sua ultima uscita di scena fosse un misero primo turno all’US Open, malamente perso contro l’anonima, almeno al suo cospetto, Denisa Allertova. «Ho vissuto il mio sogno»; dirà al momento dell’addio. Da una vasca riempita di terra battuta al Roland Garros. Dall’esprimere un tennis a tratti incontenibile al perdere completamente la cifra da fuoriserie che le apparteneva nel profondo. In perfetta linea con il suo essere disposta a scomporsi e assemblarsi, tra trionfi e cadute, tra ajde e piroette, si è consumato il sogno di Ana Ivanovic. Un sogno salvato giusto in tempo affinché non venisse irrimediabilmente svilito e quei traguardi tagliati non perdessero quell’evanescenza che la rendono una splendida regina precocemente deposta.