Quando Dante si trovò in procinto di narrarci cosa vide durante il suo viaggio in Paradiso, nella terza e ultima cantica della Divina Commedia, premise che si trovava davanti all’ineffabile, ad indicare qualcosa talmente al di sopra della razionalità umana che non avrebbe potuto essere descritto adeguatamente a parole, perché di parole adeguate non ne esistevano. Nonostante la lingua italiana sia in continua e costante evoluzione, oggi non esistono probabilmente vocaboli adatti per descrivere a un profano che non lo conosca (impresa, già questa, quasi impossibile), chi sia e cosa rappresenti Roger Federer.
L’8 agosto di trentasei anni fa, a Basilea, nacque colui che sarebbe stato in grado di cambiare il mondo dello sport per sempre. Almeno nel tennis, da quel momento in poi ci sarebbe stato e ci sarà per sempre un a.F e un d.F., avanti Federer e dopo Federer. Roger può essere infatti considerato, sportivamente parlando, un vero e proprio dio, la più autentica e reale emanazione del suprematismo di Malevic: il periodo di attività dello svizzero sarà sempre e comunque migliore, tennisticamente, di quello che c’era prima e di quello che ci sarà poi. Nessuno mai potrà raggiungere tutti ciò di cui RF è la massima espressione nel momento in cui la pallina gialla esce dal piatto corde della sua racchetta, in un movimento che sembra essere il più naturale, bello, elegante, perfetto del mondo.
Non sono tutti i trofei che Federer ha vinto, di cui si potrebbero scrivere pagine, anzi, libri interi, ma è più che altro il modo in cui lo ha fatto, e grazie al cielo, ancora lo fa. Riesce a suscitare un sentimento di invidia positiva nell’anima di chi lo guarda, ad imporsi cautamente come esempio di gioco e di vita, a giocare un tennis che rende limpidi gli occhi dell’osservatore. Guardare giocare Roger Federer è un’esperienza di vita quasi religiosa. Tutti noi che possiamo abbeverarci alla sua fonte mentre ancora zampilla di freschezza, dobbiamo considerarci dei privilegiati.
RF è un tennista che quando gioca transumana e va verso il Divino, raggiungendolo e facendosi prestare quell’epiteto almeno fino al momento in cui, quasi sempre per secondo, stringe la mano del giudice di sedia. Dopodiché, Roger, si commuove quando vede comparire la sua nutritissima schiera di pargoli seduti con confidenza sulla balaustra del centrale di Wimbledon (d’altronde, dopo l’ottava volta che il babbo ha vinto su quel prato, se non lo considerano il giardino di casa propria poco ci manca): in quel momento torna ad essere uomo.
Il primo a esercitare la maieutica tennistica su Roger Federer, e cioè il primo a far uscire dalla sua persona il talento, fu Peter Carter al Tennis Club di Basilea. Dall’età di nove anni fino alla maturità, RF era tutt’altro rispetto al signore in giacca bianca coi bordi dorati che siamo abituati a ricordare, ma era piuttosto un “piccolo Satana” (così erano soliti chiamarlo i suoi compagni di giochi svizzeri). Il giovane Roger era piuttosto aggressivo, soprattutto con sé stesso, ogni volta che sbagliava un punto in allenamento; “Diventerò il numero uno del mondo”, si ripeteva come un mantra.
Dopo anni di vittorie fuori dall’ordinario e dopo essere stato numero uno ATP per 302 settimane (sì, trecentodue), l’attuale allenatore e probabilmente il più decisivo degli anni è Ivan Lijubicic, ex tennista in grado di far capire a Roger che dopo il periodo nero costellato da infortuni, era giunto il momento della resurrezione. E quello di uscire a riveder le stelle.