Sembra ieri quando, sui sacri campi dell’All England Lawn Tennis Club, un diciassettenne tedesco dal fisico statuario, rosso di capelli, la carnagione bianca e punteggiata di efelidi, serve da sinistra una prima micidiale ed accompagna con lo sguardo le braccia al cielo, mentre calpesta l’erba con una serie di passi veloci, un po’ per arrestare la spinta che lo sta lanciando a rete, un po’ come se quel battere rimarcasse quanto pesante sia l’impresa che ha appena compiuto. Sembra ieri, e invece era il 7 luglio del 1985. Quel ragazzino capace di imporre la sua presenza facendo del suo impeto, del suo coraggio cieco e al tempo stesso lucidissimo, della sua impertinenza, della sua potenza, delle armi devastanti che lo avrebbero accompagnato per l’intera carriera; è diventato un uomo.
Invece chissà, forse quando Boris Becker ripensa a quel giorno, che vide due astri, uno in cielo e uno in campo, lo sente lontano, distante, quasi fosse un frammento, un residuo di una vita passata. Perché da quel giorno la vita del campione tedesco ha iniziato a girare a una velocità supersonica, ha perso di aderenza al suolo. Quasi fosse stato capace di riunificare la Germania prima della caduta del muro, dalla sua prima vittoria a Wimbledon un’intera nazione lo ha stritolato per non mollarlo più. L’assedio però, era iniziato molto prima, quando ancora si allenava sui campi del Blau-Weis Tennisklub, il Circolo di Leimen, la cittadina che lo ha visto nascere; e il Ministero della Pubblica Istruzione gli concesse una dispensa speciale, consentendogli di abbandonare la scuola dopo la Licenza Media, quasi che l’urgenza di fare di quel bambino prodigio un campione fosse davvero un priorità nazionale.
Boris Becker si è sentito usato, venduto, strumentalizzato. Tutto quell’interesse, tutta quella morbosità nei suoi confronti, lo hanno turbato provocandogli vere e proprie crisi di identità, sfociate in qualcosa di molto simile a delle manie di onnipotenza. Non voleva essere una leggenda, ha spiegato; «Poi ho pensato che le mie vittorie potevano far felici gli anziani, i poveri, gli emarginati. Per loro ho accettato di passare per idolo». Da Robin Hodd che dona emozioni al posto del pane e qualche moneta d’oro la metamorfosi è breve ed eccolo trasformarsi in un Martin Lutero risentito al cospetto della devozione con cui la stampa tedesca dà spazio a un suo infortunio piuttosto che alla Crisi del Golfo; per poi, con una velocità seconda solo ad un Arturo Brachetti, vestire i panni da Che Guevara e dirsi «per nulla fiero di essere cittadino di uno Stato che appoggia idee capitaliste»; e ancora catapultarsi negli anni 50’ quando ad Hollywood era in auge il motto vivi veloce, muori giovane per spiegare: «Avevo soldi, fama, auto, donne. Eppure mi sentivo infelice. Mi tornavano in mente le biografie di Marilyn Monroe e James Dean, di tante star che al culmine della celebrità avevano trovato la morte, magari suicidandosi». E al suicidio, Boris Becker, ha confidato di averci persino pensato: «Una volta mi trovai a un passo dalla finestra e pensai che bastava un passo e sarebbe finito tutto». Eppure, con il senno di poi, ripensando ai suoi modi al limite del teatrale, a quel portamento dignitoso, la schiena diritta, il mento leggermente alzato, quasi fosse un cavaliere uscito da un libretto musicato da Wagner, alla sua voce profonda che durante le premiazione teneva volutamente più bassa di un paio di toni come a voler avvolgere di gravità le sue gesta; viene quasi spontaneo pensare che un pochino ci abbia marciato sopra.
Certo, i problemi li ha avuti eccome, con il fisco e con le donne in primis. Sarà che la Germania ha mal digerito il suo trasferimento a Montecarlo, mentre le donne a quanto pare gli hanno sempre corso letteralmente dietro. A partire dalla giornalista Costanze Wetzel che, divenuta amica della fidanzata di Michael Westphal – compagno in Davis di Boris e morto di Aids a soli ventisei anni -, ha iniziato la sua caccia a Becker, per arrivare alla presentatrice televisiva Desiree Nosbusch che, dopo averlo invitato al suo talk-show, ha lasciato intendere che tra loro ci fosse del tenero. Simpatia che era per certo sbocciata con la collega Susan Mascarin per lo meno finché non ha conosciuto Benedicte Courtin, una studentessa di legge che di fatto è stata la sua prima fidanzata ufficiale per almeno un anno e mezzo, spazzata via a sua volta da Karen Schultz.
A portarlo all’altare c’é invece riuscita la modella afro-americana Barbara Feltus, che gli ha dato due figli Noah Gabriel ed Elias; ma che lui ha tradito proprio la sera in cui, al settimo mese di gravidanza venne ricoverata d’urgenza in ospedale. La scappatella con Angela Ermakova, avvenuta in un bagno del Nobu Hotel, fa nascere una bambina, che anche il test del DNA riconosce come figlia del campione tedesco, e fa morire il suo matrimonio. Ma non c’è pace per Boris e allora proprio quando pareva pronto a impalmare la designer di gioielli Sandy Meyer Woelden, Becker cambia idea e sull’altare si presenta mano nella mano con una sua ex, Lilly Kerssenberg, la madre del suo quarto figlio.
Quanto al versante fisco, nel 2002 viene processato per frode fiscale e condannato dal Tribunale di Monaco di Baviera a due anni di carcere con la condizionale. Il tutto mentre, non senza un pizzico di egocentrismo, confessa che dal 1987 al 1992 ha fatto uso di dosi massicce di pillole per combattere lo stress, che ha abusato di sonniferi per racimolare qualche ora di sonno, che il solo rimedio contro la solitudine erano l’alcol e, naturalmente, le donne.
Comunque sia, il nome di Boris Becker è prima di tutto legato al tennis, a quello sport che qualcosa gli avrà indubbiamente tolto, ma ancora di più gli ha dato. Dopo il primo clamoroso trionfo a Wimbledon, Becker si ripete nel 1986, battendo in finale il numero uno del mondo, Ivan Lendl. Il terzo titolo arriva invece nel 1989 quando, dopo aver infranto i sogni di gloria di Lendl in semifinale, si prende la rivincita su Stefan Edberg, che lo aveva battuto l’anno prima e lo sconfiggerà di nuovo l’anno dopo. Sempre nel 1989, Bum Bum sfonda tutte le difese di Ivan il terribile e fa suo per la prima e unica volta l’U.S Open. I duelli con Ivan Lendl e Stefan Edberg rappresentano una costante della carriera di Boris Becker, vuoi per il valore dei contesti in cui sono avvenuti, vuoi per l’intensità che quasi sempre li ha contraddistinti. Memorabile è la finale del Master 1988 disputata sui campi in sintetico indoor del Madison Square Garden di New York quando, dopo quasi cinque ore di battaglia, sul match point del tie-break decisivo, il net parteggia per il tedesco e il ceco deve cedere il passo. Gli altri due slam della sua carriera Becker se li aggiudica in Australia: il primo nel 1991, anno in cui per la prima volta in carriera riesce a diventare n.1 del mondo; il secondo nel 1996. Tra le due vittorie, manco a dirlo gli è successo di tutto, compreso il divorzio da Bob Brett, il coach che insieme a Ion Tiriac lo aveva accompagnato nelle tappe più importanti della sua marcia verso l’empireo del tennis. L’ultimo grande acuto, l’ex bambino prodigio, lo compie nel novembre del 1996 quando nella sua Francoforte ripone in bacheca il suo terzo Master.
Il solo slam che manca a Boris Becker resta il Roland Garros, dove non è mai arrivato oltre le semifinali, e sulla cui superficie non è mai riuscito ad aggiudicarsi alcun torneo, pur arrivandoci ad un passo nel 1995 a Montecarlo, quando nella finale contro Thomas Muster ha sciupato tre match point. L’intolleranza alla terra rossa non mai stata vissuta da Becker come un’ossessione, come invece lo è stata l’erba di Wimbledon per Lendl ma, per quanto diversi in una cosa erano pressoché identici: entrambi odiavano perdere. Differente era pure il modo di esorcizzare lo spettro della sconfitta: se il ceco è passato dal glaciale self-control di inizio carriera a vere e proprie sfuriate, Boris Becker ha cercato di demolire con il suo atteggiamento chiunque osasse frapporsi fra lui e il suo ruolo di primadonna.
Il capitano di Davis Günther Bosch ha dichiarato che da ragazzino Boris reagiva molto male alle sconfitte ma che «a differenza degli altri bambini che odiavano gli avversari, lui odiava sé stesso». Prenderlo in parola non è così semplice. Andre Agassi ha raccontato che durante un match che li vedeva opposti all’US Open, il tedesco avrebbe lanciato occhiate nella direzione del box in cui sedeva Brook Shields, allora moglie dell’americano, con la sola intenzione di farlo innervosire. Michael Stich, insieme a cui Boris Becker ha vinto l’oro in doppio alle Olimpiadi di Barcellona nel 1992, ha spiegato invece come «Per Boris, gli altri giocatori tedeschi erano solo accessori. Venivano tutti dopo di lui, gente che non era al suo livello. La maggior parte dei giocatori tedeschi, me compreso, non ha mai avuto il rispetto che meritava».
Curiosamente, le quattro finali Slam perse dal tedesco si sono tutte disputate sul Centre Court, il luogo che Boris Becker considerava il giardino di casa; e a sconfiggerlo sono stati due volte Stefan Edberg, una Pete Sampras e una proprio Michael Stich. Becker però, nei confronti di Wimbledon non si dimostra ingrato e il 30 giugno 1999 gioca l’ultimo match della sua carriera proprio sul centrale. La travolgente parabola dell’ex bambino prodigio si chiude lì, sul campo che lo aveva generato e che fino alla fine lo ha considerato una sorta di figlio.
Dopo aver sfidato a scacchi Garry Kasparov, dopo una biografia, dopo aver abbracciato la fede vegetariana, dopo la passione per il poker, Boris Becker ha iniziato a dividersi tra telecronache, partecipazioni a svilenti show e ricche esibizioni. Finché è arrivata la proposta-accordo di lavoro con Novak Djokovic e il box del serbo si è arricchito della sua presenza. Difficile stabilire quale forza aggiunta abbia realmente trasmesso sul piano tecnico-tattico-psicologico al belgradese, fatto sta che i risultati non si sono fatti attendere più di tanto: nella stagione 2014 Djokovic è tornato n.1 del mondo per da lì instaurare una vera e propria era personale. Eppure, nonostante la costante che pare unire il nome di Becker al successo, il tedesco sembra non aver fatto pace né con la Germania, né con il tempo che passa.
Già, il tempo, quel feroce meccanismo che tutto macina ma che non è riuscito a estinguere non solo il ricordo, proprio l’essenza agrodolce di Boris Becker, un uomo che ha lasciato in tutti coloro che non hanno, che non abbiamo, tifato per lui uno strano sapore in bocca. In fondo, a ripensarci, come sarebbe stato pirotecnico parteggiare per quel fuoriclasse che si atteggiava a invincibile, mentre invece, dietro a quell’orgoglio esasperato forse c’era solo il desiderio di essere amato per quello che era veramente, di essere riconosciuto nella sua vera essenza: un uomo gettato in pasto alla storia.