Lui, Marat: ex n.1 del mondo, vincitore di 15 titoli ATP tra cui due prove del Grande Slam, un Caligola moderno, talento e sregolatezza fuse insieme, la faccia da mascalzone, uno che «paga le donne per farle andare via dal suo letto». Lei, Dinara, ex capobanda del ranking, 12 titoli WTA nonché tre finali slam, tutte perse, oltre a un argento alle Olimpiadi di Pechino, il braccio messo a servizio di un tennis monocorde, il volto sempre un po’ incupito, tanto carattere condito da un pizzico di timidezza. Marat, che da bravo e protettivo fratello maggiore, dall’alto del suo scranno profetizza: «tra pochi anni sarà Dinara quella con più trofei in famiglia». Presunzione e vanità pronte a mettersi da parte in funzione di lei sola, Dinara, per la quale nutre un affetto per certi versi affine a quello che Caligola provava per la sorella Drusilla, al punto che quando morì appena ventenne, l’imperatore ne decretò il culto, divinizzandola come Diva Giulia. Dinara, succube ed anche un po’ ammaliata dalla venerazione che in tanti riservano al fratello, una devozione tale da farla sentire «meno di lui» anche quando in vetta alle classifiche c’é lei, quando del grande Marat era rimasto poco o nulla. Perché mentre Marat Safin è stato adorato o disprezzato, ma in ogni caso il suo ricordo evoca tinte forte, sapori insopportabilmente amari o dolci, Dinara Safina è stata vissuta da tutti en passant, e per questo rimarrà incastrata per l’eternità tra l’essere la sorella di un personaggio che ha superato il tennista e l’essere stata una regina senza corona, una numero uno senza slam.
Fa un po’ strano dirlo, ma Dinara Safina ha una trentina d’anni. Fa strano perché tutti, irrimediabilmente viziati da Monica Seles, da Martina Hingis, dalle sorelle Williams e da alcune sue precocissime connazionali come Maria Sharapova e Svetlana Kuznetsova, la consideravamo ormai vecchia, quasi sorpassata per essere una degna n.1, quando invece era ancora giovanissima; mentre dal momento in cui si è smarrita, che il circuito l’ha smarrita, abbiamo avvertito una fitta agli intercostali, consci di aver appena subito una perdita, perché all’improvviso ci siamo resi conto che era appena una ragazza.
Dinara Safina nasce a Mosca, il 27 aprile del 1986. Sua madre, Rauza Islanova, è una maestra di tennis, suo padre, come la moglie di etnia tartara, è il direttore del Tennis Club Spartak Mosca. Dinara ha otto anni quando la sua famiglia decide di trasferirsi a Velencia per consentire a lei ed a Marat di crescere in un ambiente in cui ormai la paella viene condita anziché con carne e zafferano, con terra battuta e palline da tennis. Sono gli anni in cui Sergi Bruguera conquista due edizioni del Roland Garros, facendo da battistrada ai vari Corretja, Moya, Costa, Ferrero e ovviamente Nadal. La sorellina minore di Marat però cresce nel mito di Steffi Graf e Martina Hingis: è il diritto della tedesca che vorrebbe avere, è l’intelligenza tattica dell’elvetica che vorrebbe sviluppare. Invece, si ritrova prima chiusa in una palestra a sollevar pesi, poi piazzata con i piedi sopra alla riga di fondo campo, per infine sentirsi dire che, con quelle spalle lì, non deve pensare ad altro che a tirare, tirare, tirare. Di anni, Dinara ne ha quattordici quando suo fratello disintegra Pete Sampras in finale all’U.S Open. Quella notte, lei non è a New York ma a Valencia, senza poter nemmeno seguire il match alla tv,perché non riceve il canale in cui lo trasmettono; deve accontentarsi di tenere a bada l’ansia fremendo ad ogni sms con i quali degli amici la aggiornano dalla Big Apple.
Una certa agitazione interiore ce l’ha pure in campo, dove segue alla lettera il consiglio di rimanere sempre sulla riga di fondo a tirar mine. I primi risultati arrivano sin dal debutto in un torneo WTA, nel maggio 2002, quando sulla terra rossa ad Estoril raggiunge le semifinali. Tre mesi dopo, Dinara conquista addirittura il suo primo titolo, a Sopot. Debutta anche in una prova del Grande Slam, perdendo al secondo turno all’U.S Open per mano di Serena Williams, mentre a Mosca sconfigge la sua prima top 20, Silvia Farina Elia. Dopo aver chiuso la stagione al 68esimo posto del ranking WTA, il 2003 di Dinara Safina non è all’altezza delle aspettative in quanto si aggiudica solo il torno di Palermo, guadagnando appena una manciata di posizioni in classifica. Prende una piega leggermente più positiva il 2004, in cui rimedia alcune batoste evitabili, ma in cui riesce comunque a raggiungere la semifinale a Parigi, dove perde 6-1 6-1 da Kim Clijsters, gli ottavi all’U.S Open dove raggranella appena un game in più contro la Henin, e la finale agli Open di Lussemburgo dove perde da Alicia Molik.
Dinara ha le spalle sempre più robuste, non retrocede di un centimetro dalla riga di battuta, si è tolta le geometrie della Hingis dalla testa e su consiglio del suo coach, Glen Schaap, non tira mai indietro il braccio. L’impressione comune però è che i piedi dalla riga non li smuova per pigrizia, che abbia cancellato qualsiasi concetto tattico basilare, e che i suoi vincenti siano un po’ troppo inferiori rispetto agli attentati contro giudici di linea e raccattapalle posizionati davanti al telone di fondo campo. Per questa serie di motivi, tutti la osservano con diffidenza, considerandola niente più che «la sorellina di Marat». Nel febbraio del 2005 però, la Safina zittisce tutti cogliendo una vittoria di prestigio sul cemento di Parigi, dove sconfigge in finale Amelie Mauresmo. «Non riesco a trovare le parole per spiegare come mi sento in questo momento. È di gran lunga il giorno più bello della mia carriera. Vincere un torneo importante e battere una top 5. Forse è persino troppo in un solo giorno»; afferma Dinara tradendo tutta l’emozione di una diciottenne cresciuta all’ombra dello statuario fratello.
Con procedere altalenante, a maggio conquista il torneo di Praga, tuttavia perde al primo turno al Roland Garros, al secondo a Wimbledon e nuovamente al primo step dell’U.S Open. Si rifà a fine stagione, in Lussemburgo raggiungendo la semifinale, mentre a Mosca sconfigge Maria Sharapova ai quarti di finale. Dopo aver contribuito alla vittoria della Russia in Fed Cup; nell’arco del 2006 la sorellina di Marat inizia a mettere un po’ di chiasso nel circuito: a Roma prevale su Kim Clijsters, Elena Dementieva e Svetlana Kuznetsova, prima di essere sconfitta in finale da Martina Hingis; per poi raggiungere i quarti sia al Roland Garros che all’U.S Open.
Sulle ali dell’entusiasmo il 6 gennaio 2007, sul cemento di Gold Coast, Dinara Safina batte il suo idolo d’infanzia, Martina Hingis la quale, durante la cerimonia di premiazione sostiene che: «Forse Dinara farà meglio di suo fratello». Eppure all’Australian Open la russa cede al terzo turno a Na Li, nella finale di Charleston non riesce a superare Jelena Jankovic, mentre sia a Roma che a Berlino deve accontentarsi dei quarti. Un’altra sconfitta subita per mano della Jankovic,in semifinale a ‘S-Hertogenbosch dopo aver avuto un match point, la scombina ulteriormente tanto che a Wimbledon non va oltre al secondo turno. Dinara si riscatta all’US Open, non tanto in singolare dove racimola appena due game negli ottavi contro un’impietosa Justine Henin, bensì in doppio dove si aggiudica il titolo insieme a Nathalie Dechy.
Dinara ha già ventuno anni e nessuno crede in una svolta. Che invece arriva. Dopo un avvio di stagione sotto tono, nel maggio 2008 Dinara Safina conquista Berlino, dove batte la n.1 del mondo Justine Henin prossima al ritiro, Serena Williams, Victoria Azarenka e all’ultimo atto Elena Dementieva. È poi la volta del Roland Garros: la moscovita supera facilmente i primi tre turni finché agli ottavi butta fuori Maria Sharapova dopo aver annullato un match point. La marcia di Dinara prosegue nei quarti, dove annulla un altro match point ad Elena Dementieva prima di infliggerle un severissimo 6-0 al terzo. Se in semifinale domina una poco ispirata Svetlana Kuznetsova, in finale Ana Ivanovic e l’emozione le negano di coronare il sogno. Chiamata a difendere i colori della Russia alle Olimpiadi di Pechino, la Safina sembra lanciata verso un giusto riscatto ma, giunta al rush finale, si vede sfilare l’oro dal collo da Elena Dementieva. La russa sembra comunque non risentire di contraccolpi psicologici perché, giunta all’U.S Open, ha già la mente libera e il braccio sciolto. La semifinale raggiunta e persa contro Serena Williams le vale il terzo posto del ranking, oltre a un’iniezione di fiducia che la lanciano verso la sua miglior stagione: il 2009.
A gennaio, dopo aver regalato alla Russia il secondo posto nella Hopman Cup in coppia con Marat; raggiunge la finale del torneo di Sydney e disputa un Australian Open strepitoso, ingiustamente ridimensionato dalla batosta subita all’ultimo atto contro Serena Williams che la liquida in appena 59 minuti. Pesa l’assenza di uno slam nel palmares sempre più ricco di Dinara che, dopo la finale di Stoccarda persa contro la Kutznetsova, si vendica sulla connazionale a Roma e si impone pure sulla terra rossa di Madrid. Una carenza che il suo coach, Željko Krajan, assicura sarà colmata al Roland Garros dove Dinara Safina si presenta come n.1 del mondo. In quello che sembra essere, che avrebbe dovuto essere, il suo torneo, la Safina arriva ai quarti lasciando per strada la miseria di cinque game. Al che, Dinara fa il bello e il cattivo tempo contro Victoria Azarenka, che batte 6-1 4-6 6-2, così come non fa veder palla alla Cibulkova in semifinale. Presentatasi alla terza finale slam, si ritrova però opposta a una Svetlana Kuznetsova impossibile da domare e per la terza volta il sogno sfuma.
L’opinione pubblica si scaglia contro quella «numero uno del mondo senza slam» provocando la reazione di Marat che prontamente manda a quel paese chiunque osi offenderla ed insiste nel sostenere che è Dinara quella che davvero rimarrà nella storia di questo sport, non lui. Lei invece, come suo solito, continua a parlar poco, a comportarsi bene negli appuntamenti che contano ma, puntualmente, a perdere nettamente ogniqualvolta arriva al dunque o giù di lì. Chissà quanta tensione e quali angoscianti timori affollavano la mente di Dinara durante la semifinale di Wimbledon 2009 persa 6-1 6-0 contro Venus Williams in 45 minuti. La vittoria di Portorose, che con il senno di poi si rivelerà essere l’ultima della sua carriera, non dissolve le ombre che gravano sulla russa che, dopo aver perso un’altra finale a Los Angeles non va oltre al terzo turno all’US Open. Due spettrali prestazioni a Beijing e a Tokyo precedono di poco il ritiro dal Master, durante il primo match contro Jelena Jankovic, sul punteggio di 1-1. E così, dopo ventisei settimane, il 2 novembre 2009, Dinara Safina perde la leadership della classifica; per non riconquistarla mai più.
La schiena di Dinara si piega quel tanto da impedirle, non solo di partecipare alla maggior parte dei tornei, ma di esprimere il suo tennis le rare volte che scende in campo. E così, se nel 2010 la classifica crolla facendola rotolare fino al 60esimo posto del ranking; il 6-0 6-0 inflittale da Kim Clijsters al primo turno degli Australian Open è la prima di una serie di umiliazioni destinate a celebrare un’ecatombe di risultati. La vera bad news la recita un comunicato «frattura alla schiena da stress» a cui fa seguito, il 7 ottobre 2011, l’annuncio del ritiro comunicato dal fratello: «Dinara ha bisogno di riportare la sua schiena alla normalità in modo da camminare e vivere normalmente. Continuerà a curarsi ma non giocherà più. Lei stessa farà un annuncio ufficiale, ma come fratello credo che non ci siano possibilità di ritorno».
In realtà Dinara non parla di ritiro anzi, nel giungo 2012 fa richiesta tramite fax di una wild card per i tornei di Montreal, Cincinnati e all’US Open. Domande che ritira un mese dopo. Fino a chiudere il sipario, lei stessa, in occasione del torneo di Madrid nel 2014; forse conscia di non poter mai più mettere i piedi su quella riga di fondo che con ostinazione cercava di calpestare il più possibile; forse sfiancata dalla tensione, estenuata da quell’esilità interiore che in simbiosi con la schiena di porcellana l’hanno scavata dentro fino a farla crollare.
Le spalle larghe della Safina hanno ingannato tutti. Dinara ha ingannato tutti. Ha ingannato gli sghignazzanti addetti ai lavori stupidamente compiaciuti nel definirla «la sorellina di Marat»; perché no, non era proprio così, lo ha dimostrato in campo, così come lo ha suggerito il suo potenziale che, incastrato tra due vertebre, rimarrà un enigma per sempre. Ha ingannato il pubblico, che mai è riuscito a simpatizzarci con la moscovita, incapace di vedere oltre a quel volto buio, spesso angosciato, forse perché consapevole dell’incrinatura che le si faceva largo dentro. Ha ingannato Martina Hingis perché in effetti no, Dinara non ha superato il fratello; così come ha ingannato pure lui, il tanto venerato Marat. Forse la sola a conoscere la verità era proprio lei, Dinara. Una verità che è diventata metafora in un grigio pomeriggio parigino bagnato da una finissima pioggia, quando gli dei del tennis già di per se’ predisposti a prendere le parti della figlia più forte Svetlana Kuznetsova, hanno riservato a Dinara l’ennesima beffa, una seconda di servizio che sul match point s’è impennata sul nastro per poi cadere addirittura fuori dal rettangolo di gioco. L’ennesima inganno. Ma questa volta è stata opera del fato, perennemente avverso.