Indian Wells Tennis Garden. È in una fresca serata del marzo 2002 che Fabrice Santoro e Pete Sampras giocano il loro match di terzo turno. Seppure lo statunitense sia ormai sul viale del tramonto, il suo è un nome che fa ancora paura al mondo e, quando si è visto replicare ad un suo smash con una smorzata di diritto, bimane, non ha potuto credere ai suoi occhi. «Quello è un mago», dirà in conferenza stampa Sampras, dopo aver vinto 7-5 al terzo, ma ancora sotto l’effetto dei colpi, degli incantesimi, che quel piccolo francese aveva creato con la sua racchetta. C’è voluta la benedizione di Pistol Pete, in genere poco loquace ed ancor meno complimentoso, perché Fabrice Santoro agli occhi del grande pubblico si trasformasse da un tennista difficile da definire, per i più incomprensibile e inconcepibile a The magiacian, il Mago.
Nato a Tahiti il 9 dicembre del 1972 Fabrice Santoro, è sempre stata una promessa ma, con quella sua aria da pulcino più piccolo della covata, quasi nessuno si sarebbe aspettato che sarebbe stata mantenuta. E dire che i presupposti c’erano tutti: campione di Francia under 12, under 14 e under 16, il suo nome figura nell’albo d’oro dell’Orange Bowl e a 17 anni ha trionfato al Roland Garros under 18. Appena diciottenne era già un top 50 e quando il 1 dicembre del 1991 la Francia ha vinto la Coppa Davis dopo 59 anni, Santoro faceva parte dello squadrone capitanato da Yannick Noah. Il giovane Fabrice però, non venne schierato titolare in finale contro gli USA, perché ritenuto troppo gracile, troppo ‘leggero’ per Andre Agassi e Pete Sampras.
Uno strano ibrido Fabrice Santoro, ma forse uno dei tanti vantaggi dell’essere un mago è quello di poter passare per quello che non si è, di confondere, di rinnovarsi, di perfezionare i propri giochi di prestigio. Fatto sta che un bel giorno, quello che da molti era considerato un anonimo pallettaro vecchio stampo, si è stancato di star in fondo a pedalare ed ha deciso di dare un senso al suo gioco, o forse di toglierlo quel senso, difficile da capire, come tutto d’un tratto è diventato difficile giocarci contro. Perché a un certo punto della sua carriera Fabrice Santoro ha deciso di costruire, o decostruire, il proprio gioco.
Per il filosofo francese Jacques Deridda la decostruzione si configura nell’abilità di evidenziare gli scarti, i vuoti, le fratture, le discontinuità; in modo da annientare il concetto che tutto unifica, identifica, ingloba in sé. Qualcosa di molto vicino al tennis di Fabrice Santoro che, attraverso il suo gioco, fatto di continui cambi di ritmo, passava dalla pienezza del suo diritto piatto, a due mani, esasperatamente anticipato tanto che spesso ribatteva alle fucilate degli avversari in contro balzo; a slice di rovescio, pure esso bimane, privi di peso, vuoti, velenosamente inconsistenti, tesi a mandare fuori giri l’integrità di avversari più alti, più robusti, più potenti, più vincenti. Le fratture nel tennis del francese si facevano stridenti proprio quando il calcolo delle probabilità suggeriva che nessuno avrebbe impostato il punto in quel modo lì, che nessuno avrebbe attaccato in contro tempo da quella posizione, che nessuno avrebbe tentato un passante incrociato stretto proprio in quel frangente. Nessuno, tranne il Mago.
Forse a causa del suo tennis così impalpabile, molti anni prima che Sampras si sciogliesse in elogi al punto da condizionare il giudizio della maggior parte degli addetti ai lavori, John McEnroe disse che «uno come Santoro non arriverà mai ai quarti di uno slam». Un quarto in verità lo ha raggiunto, all’Australian Open 2006, quando aveva già trentadue anni. Gli altri migliori risultati negli slam sono un terzo turno a Wimbledon nel 2001, quattro terzi turni all’US Open e due ottavi a Parigi, a distanza di dieci anni l’uno dall’altro: il primo nel 1991 dove batté Mats Wilander, il secondo nel 2001 dove fece perdere la ragione a Marat Safin. «Quando me lo ritrovo davanti mi fa impazzire: vorrei ucciderlo o uccidermi…»; ha spiegato il russo per giustificare una serie di deludenti prestazioni rimediate contro il francese che negli head to head è in vantaggio 7-2 sul due volte campione slam. Ma il moscovita non è stato il solo ad aver sofferto le perfide traiettorie di Santoro: se negli scontri diretti con Sampras l’americano è in vantaggio di un match, i confronti con Andre Agassi sono in perfetta parità 3-3, mentre gli head to head che vedono opposti Fabrice Santoro a Thomas Muster e Carlos Moya, premiano il transalpino.
Quando al plauso di Pete Sampras si affiancarono le parole di Andre Agassi anche il pubblico si convinse che «per veder giocare Fabrice il prezzo del biglietto non è ancora stato stabilito”; tant’è che i match di Santoro divennero gettonatissimi tra gli appassionati. E così, il coro degli ammiratori si fece sempre più numeroso, persino un po’ troppo adulatorio nei confronti di Fabrice Santoro che a sostegno degli ‘osanna’ a lui dedicati può far leva solo su 6 titoli ATP. Il francese ha vinto il suo primo torneo nel 1997 sul sintetico di Lione in finale contro Tommy Haas, si è imposto a Marsiglia nel 1999 contro Arnaud Clement, ha trionfato sul cemento di Doha e Dubai, per infine ripetersi a Newport nel 2007 e nel 2008. Paradossalmente in doppio è andato molto meglio: 24 titoli in bacheca tra cui tre prove del Grande Slam; due in in coppia con il connazionale Michaël Llondra, entrambi agli Australian Open, ed uno doppio misto davanti al pubblico parigino, insieme a Daniela Hantuchova. Il momento più entusiasmante della sua vita sportiva è avvenuto però con la vittoria in Coppa Davis nel 2001, a Melbourne contro l’Australia di Lleyton Hewitt e Patrick Rafter.
È stato forse Guy Forget il più verosimile nel metaforizzare il gioco di Santoro: «certi giorni Fabrice è paragonabile ad un virus che infetta un computer: a poco a poco distrugge tutto quanto gli sta intorno». Non solo imprevedibile, non solo disturbante, Santoro ha saputo essere anche estenuante quando, al Roland Garros 2004 ha pazientato per 6 ore e 33 minuti prima di battere Clement per 6-4 6-3 6-7 3-6 16-14; rendendo possibile uno dei match più lunghi e avvilenti della storia di questo sport. Perché in realtà The Magician di partite ne ha addormentate parecchie a suon di lob, anche quando tutti lo avevano promosso a fantasista. «Lo sport ad alti livelli è meraviglioso ma anche difficile, perché è un continuo interrogarsi. Ogni settimana si ha una buona occasione per prendere uno schiaffo, e dopo devi motivarti e andare avanti»; disse un giorno Fabrice e, quando il 30 maggio 2008 subì sulla terra rossa di Parigi la sconfitta più umiliante della sua carriera contro David Ferrer consistente in un inderogabile 6-1 6-0 6-1, di domande deve essersene posto parecchie.
Che i viaggi intorno al mondo del Circus Santoro fosse agli sgoccioli era evidente già da un pò, ma l’annuncio del ritiro è avvenuto a Bercy nel 2009, dopo essere uscito sconfitto al primo turno per mano dell’americano James Blake. Poi ha avuto un ripensamento e nel gennaio 2010 si è iscritto all’Australian Open, dove viene eliminato, sempre al primo turno, dal croato Marin Cilic. Il solo fatto di aver partecipato al torneo gli consente però di diventare l’unico giocatore dell’era Open ad aver giocato i tornei del Grande Slam in quattro decadi differenti.
A carriera conclusa giunge, puntuale quanto inevitabile, il tempo dei bilanci e l’analisi che fa il Mago di una trentina di anni dedicati al tennis è positiva, non ha rimpianti, un po’ perché: «Il tennis per me era naturale, già a nove anni ero nel giro della nazionale francese, non ho avuto mai il tempo per pensare a qualcos’altro, non mi sono mai chiesto se avrei potuto diventare qualcosa di diverso da un tennista…»; un po’ perché «Credo di aver espresso il mio potenziale al 100%. Se ripenso a quello che ho vinto, al mio gioco, alla mia vita con i suoi pregi e i suoi difetti mi dico che sono riuscito ad arrivare in fondo».
Di carattere schivo e non troppo accomodante, Fabrice ha ammesso di ammirare molto Roger Federer: «È un grande ambasciatore per il tennis. Vederlo giocare è una specie di sogno perché puoi vedere lui che riesce a fare tutte le cose che vorresti fare tu sul campo”; ed Andre Agassi “Per il suo viaggio fatto di alti e bassi, perché è stato messo in discussione ed ha saputo tornare ai vertici, perché ha avuto una vita ricca di significato». Grande appassionato di sport, Santoro ama lo sci, la Formula Uno ed ha confidato che in passato, era solito puntare la sveglia ed alzarsi a notte fonda per vedere in tv le sfide di Mike Tyson.
Si è ritirato dal circuito The Magician, ma non ha appeso la racchetta al chiodo: «Mi piace giocare le esibizioni. In quei momenti riacquisto il contatto con il pubblico e l’adrenalina si risveglia»; ha raccontato Fabrice che, sul finire del 2011, era considerato un papabile per diventare il capitano francese di Coppa Davis. Carica che ha rifiutato, ma che in futuro non ha escluso potrebbe ricoprire. Per il momento, siccome possiede una stupenda collezione di racchette da tennis classiche, vorrebbe aprire un museo in modo da poter permettere agli appassionati di ammirare lo spettacolo di quei pezzi rari.
Che altro dire? Fabrice Santoro è e rimarrà per sempre il piccolo Mago senza età, non un eletto come Harry Potter, il maghetto creato da J. K. Rowling, ma di certo uno splendido esempio di sportivo, che ha fatto divertire chi ha saputo stare al gioco ed ha accettato di lasciarsi trasportare nella sua dimensione.