Hai visto fiorire il deserto?
Dimmi: hai visto il deserto in fiore?
Dimmi, perché io sappia
come risplende un deserto in fiore
Io ho visto fiorire il deserto
Era il volto del cieco
quando ha toccato con la mano qualcosa
che la sua bocca ricordava.
(Gunnar Ekelöf)
La persistenza della memoria è una delle tante opere di Salvator Dalì ambientate in uno sfondo, in uno scenario, riconducibile a un ipotetico deserto. Una riflessione sulla relatività del tempo, il cui scorrere è scandito da alcuni orologi che, a rigor di logica, dovrebbero misurare oggettivamente la dimensione terrena, eppure, questi strumenti così precisi, così tecnici, così apparentemente infallibili, sono messi in crisi, smentiti, cancellati, dalla memoria umana, un dato né quantificabile né tangibile che è alla base della soggettività del tempo. Svetlana Kuznetsova, che nel luglio del 2016 è tornata top 10 dopo oltre sei anni e che a novembre si è qualificata per un Master, poi sfuggitole per un soffio, dopo sette, il 19 marzo 2017 ha disputato la sua terza finale al BNP Paribus Open, meglio conosciuto come il torneo di Indian Wells, a distanza di nove anni. Cosa rappresentano nove anni nel mondo del tennis? Nel trambusto di un’era indefinibile in cui risorgono ex promesse date per disperse, dove si affacciano giocatrici apparentemente destinate a palcoscenici minori, mentre le nuove leve sembrano essere incapaci di spiccare il volo – vuoi per qualità in difetto o per un caos generale probabilmente analizzabile solo a distanza di anni – ebbene sei, sette, nove anni possono significare tanto, o forse niente.
Svetlana Kuznetsova è professionista da ormai diciassette anni. Ha conquistato il suo primo slam tredici anni or sono. Aveva diciannove anni. È tuttora l’ultima teenager che è stata capace di tanto. Ora, tredici anni dopo, è una donna proiettata verso i trentadue. La velocità e la lentezza che custodiscono in loro stessi tanti anni di professionismo esasperato, di traguardi tagliati, di aspettative tradite, di picchi, cadute, esaltazioni spropositate, giudizi sommari, insomma, di quel qualcosa che solo un personaggio pubblico vive in prima persona, che assimila e contro cui si ritrova suo malgrado costretto a misurarsi, altro non sono che il resoconto di una persistenza della memoria dove orologi e ricordi si ritrovano in perenne conflitto. Svetlana Kuznetsova si è affacciata sul deserto di Indian Wells con più incognite che certezze. Nonostante gli ottavi di finale raggiunti all’Australian Open, nella campagna aussie è mancato quell’acuto degno di una giocatrice del suo calibro. Decisamente sofferto si è poi rivelato il torneo di casa, a San Pietroburgo dove tra pressioni e acciacchi, la russa è uscita prematuramente di scena, per quindi vedersi costretta a rinunciare alle trasferte a Doha e Dubai. L’ultimo atto disputato a Indian Wells ha però rimescolato per l’ennesima volta le carte:forte di una forma consolidatasi lungo il cammino, in semifinale Svetlana ha battuto la giocatrice più cool del momento, Karolina Pliskova, per quindi apprestarsi a incrociare la racchetta con la connazionale Elena Vesnina, un’avversaria obiettivamente più debole sotto ogni punto di vista.
Al che, qualcosa è andato storto. Facendo leva su quel coraggio e quell’aggressività che potevano garantirle un numero seppur limitato di chance, Elena Vesnina si è appropriata di quel titolo che si sarebbe detto destinato ad arricchire il palmares della russa favorita dai pronostici. Una passività, quella portata in campo da Svetlana, che è apparsa un miscuglio tra una inspiegabile – ma che altre volte in passato ha bussato alle sue corde – incapacità di sentirsi bene in campo, quindi di esprimersi, e la conseguente decisione di giocare basandosi sul punteggio anziché sul produrre gioco. Un primo set vinto con un pizzico di fortuna ed un break di vantaggio nel secondo, non le sono bastati a trovare quella fiducia, quella sicurezza, da poter infliggere la zampata decisiva ad una Elena Vesnina che, tecnicamente parlando, pareva ricoprire il ruolo del cerbiatto con la tigre.
Non solo la percezione del tempo, anche la percezione che si ha di Svetlana Kuznetsova pare essere una complessa pozione di dati, ipotesi ed emozioni perennemente destinati a contraddirsi tra loro. Nel sangue di Svetlana Kuznetsova scorre il sangue blu dei fuoriclasse. Un talento, il suo, rafforzato dalla consistenza della scuola spagnola, nel nome di un connubio carico di fascino, eppure impenetrabile, come ogni distesa laddove convivono geometrie e improvvisazioni, pragmatismo e istinto, necessità di punti fermi e misticismo. Dieci anni dopo aver ceduto a Daniela Hantuchova, nove anni dopo essere stata superata da Ana Ivanovic, il 19 marzo del 2017 Svetlana Kuznetsova non ha afferrato un trionfo che pareva essere lì, alla sua portata, distante appena un metro, ma che si è invece rivelato il terzo miraggio nel deserto. Eppure per due settimane chi l’ha vista ha potuto assaporare gli attimi sublimi, quanto terrificanti, che anticipano l’approssimarsi di una tempesta di sabbia.
Il deserto è un non luogo senza radici, senza certezze. Il deserto ha una sola costante nel cielo,che delinea un orizzonte senza fine, e un solo padrone nel il vento, il quale metodicamente cancella ogni traccia di ogni passaggio. Il deserto è l’immensità incontaminata, è un’eternità tesa a soffocare lo scorrere del tempo. Un non luogo, il deserto, affine all’indole indecifrabile di Svetlana Kuznetsova, intrinseco al suo potenziale sconfinato, specchio ideale delle domande senza risposta che ne caratterizzano l’essenza, come scrisse Gunnar Ekelöf, il volto del cieco quando ha toccato con la mano qualcosa che la sua bocca ricordava. Poesia allo stato puro. Quel qualcosa capace di rendere la memoria più potente del tempo che passa.
Questo articolo è stato pubblicato nel blog di Samantha Casella con il titolo Svetlana Kuzntesova e la persistenza della memoria