Gordon Reid a tennis sa giocare molto bene, anzi è un talento purissimo. A soli 24 anni lo scozzese non è da meno del suo connazionale Andy Murray: numero tre del mondo, stella del suo Paese, la Gran Bretagna, quest’anno ha vinto due Slam, gli Australian Open e Wimbledon. E poco più di una settimana fa ha conquistato due medaglie ai Giochi Paralimpici di Rio de Janeiro: oro in singolare, argento in doppio. Se non ne avete mai sentito parlare è perché non avete mai seguito il tennis in carrozzina: by the way, non sapete cosa vi perdete.
Reid inizia a giocare ad appena sei anni, insieme a sua sorella e i suoi due fratelli più grandi nel Lawn Tennis Club di Helensburg, una tranquilla cittadina vicino alla foce del fiume Clyde, a poche decine di chilometri da Glasgow. Gordon impara in fretta e diventa uno degli allievi più promettenti del circolo, tra i cosiddetti normodotati, perché ha ancora l’uso delle gambe, e con quelle corre avanti e indietro per il campo, con l’ardore tipico di chi ha il tennis che gli scorre nelle vene. Adora colpire la palla, si allena appena ne ha la possibilità, e naturalmente in tv non perde un match di un giovane top-player svizzero dal carattere un po’ irrequieto, ma che avrebbe certamente fatto strada. «Sono sempre stato un grande fan di Federer», ammette in un’intervista alla Cnn Gordon, che come Roger gioca il rovescio a una mano. «Da ragazzino mi piaceva stare davanti allo schermo a seguire le sue sfide, la sua classe, la sua eleganza. È uno da cui ho sempre cercato di prendere esempio». Sì, Gordon il tennis lo amava già, ma ancora non sapeva che gli avrebbe salvato la vita.
Nel 2003, proprio quando Roger Federer pone il primo dei sette sigilli nel tempio di Wimbledon contro l’australiano Mark Philippoussis, al piccolo Gordon viene diagnosticata una malattia neurologica rara, chiamata mielite trasversa, che provoca danni al midollo spinale provocando disfunzioni motorie. «Avevo dodici anni e stavo giocando con amici, a casa dei miei genitori.Ad un tratto non riuscii più ad alzarmi: quando provavo a stare in piedi, le mie gambe mi trascinavano a terra», ricorda Gordon. «All’inizio pensavo che si trattasse di crampi, ma non ci volle molto per capire che era qualcosa di più serio. Pochi giorni dopo i medici mi dissero che ero paralizzato dalla vita in giù e che non avrei più potuto camminare». A volte il destino è crudele, soprattutto quando colpisce un ragazzo nel pieno delle forze e all’inseguimento di un sogno. La malattia non lo scoraggia: «Mi hanno parlato per la prima volta del wheelchair tennis mentre andavo verso l’ospedale, come quasi tutti gli altri giorni, per oltre sei mesi. Non vidi l’ora di iniziare». Pochi giorni dopo è già in campo, non nel Club di Helensburg, che non prevede corsi per gli atleti in carrozzina, ma al più ampio Scotstoun Leisure Centre di Glasgow. Vederlo è uno spettacolo: colpisce ogni palla e sfreccia per il rettangolo di gioco sulla sua nuova carrozzina che da quel momento non sarebbe diventata un limite, ma la sua alleata di tanti successi. «Da quel momento decisi che il mio handicap non avrebbe segnato la mia vita: volevo continuare a fare palestra, rimanere in forma, muovermi, e soprattutto continuare a giocare a tennis».
Gordon non ha più l’uso delle gambe, è vero, ma il talento con la racchetta rimane intatto. I risultati lo dimostrano, all’istante: nell’aprile 2005, appena sei settimane dopo aver lasciato definitivamente l’ospedale, Gordon vince il suo primo titolo, nella B Division al Glasgow Wheelchair. A quel primo, inaspettato successo ne segue subito un altro, e poi un altro, e poi un altro ancora.A 14 anni Gordon travolge tutti gli avversari, anche molto più grandi di lui, con un spirito agonista sorprendente per la sua età, forse bramoso di dare un calcio al ricordo di quelle interminabili giornate trascorse a letto, tristi presagi di una gioventù negata. Due anni dopo, nel 2007, diventa il più giovane n. 1 britannico della storia del tennis in carrozzina e guida la marcia trionfale del team del suo Paese nel World Team Cub. L’anno dopo, la consacrazione: ad appena 16 anni, Gordon vola a Pechino, dove è chiamato a competere per la bandiera del Regno Unito ai Giochi Paralimpici. Non conquista il podio, è ancora troppo giovane, ma il mondo si accorge già che quel ragazzino dalla faccia pulita e il sorriso contagioso ha il fuoco ardente negli occhi e le stimmate del campione. A nemmeno 20 anni Gordon vanta già gli scalpi di numerosi top-player e scala decine di posizioni. Quattro anni dopo la sua prima partecipazione olimpica, ai Giochi di Londra si spinge ai quarti di finale e l’anno successivo conquista la semi a Flushing Meadows. Per gli esperti del settore, Reid è considerato all’unanimità uno dei futuri dominatori del wheelchair tennis mondiale. Ma se in campo è una belva e non smette di collezionare successi, la sua vittoria più grande è stata quella contro la malattia, che ha cercato di rovinargli la vita a un’età in cui si è troppo fragili per reagire. Gordon però lo ha fatto, diventando un ragazzo sereno, positivo, pieno di amici e di interessi – insomma, normale. Si è diplomato a pieni voti presso l’Hermitage Academy, nella cittadina natale, e quando non è in giro per il mondo non si perde una partita casalinga dei Glagow Rangers, di cui è un fervente appassionato.
Il 2016 è l’anno della svolta per Gordon, che ha vinto i primi due Slam in singolare, agli Australian Open e a Wimbledon, spingendosi fino alla seconda posizione mondiale; altrettanti ne ha vinti in doppio. La vittoria in finale sui verdi prati dell’All England Club, nello stesso campo dove aveva trionfato il suo idolo Roger Federer, è stato di gran lunga il ricordo più bello: «Ho atteso a lungo questo momento e non lo dimenticherò mai», aveva detto. «Probabilmente è il giorno più bello della mia vita». Non ci vorrà molto tempo prima che Gordon, ora n. 3, raggiunga il primo gradino del podio, superando il leggendario Stéphane Houdet, che ha 46 anni. In coppia con lui aveva vinto il primo titolo Slam agli Us Open 2015 e sempre lui, l’altro ieri a Rio, dopo aver sbaragliato i precedenti avversari, aveva battuto due set a zero, garantendosi almeno l’argento in singolare.
Al di là dei trofei vinti, il wheelchair tennis – come qualsiasi sport paralimpico – ha salvato la vita a molta gente con disabilità, che si sentivano perse e inutili come persone, figuriamoci come atleti. «Prima di questa settimana a Wimbledon», ha detto Reid dopo la vittoria, «mi sono prefissato due grandi obiettivi. Per prima cosa, essere di ispirazione per i bambini disabili e motivarli a fare sport. Secondo, quello di continuare a rompere la diffidenza che ancora esiste nei confronti degli sport per disabili. Molta gente è venuta a vederci e ha scoperto che il tennis in carrozzina è molto divertente e richiede talento e impegno. Spero che in futuro si continui a lavorare in questo senso». In effetti, chiunque abbia visto la spettacolare finale tra Gordon e lo svedese Stefan Olsson troverebbe difficoltà a non definirlo uno sport di altissimo livello tecnico e agonistico. Bei vincenti, palle corte, démi-volée, lungolinea perfetti, e quel devastante rovescio a una mano di Reid, uno dei punti di forza che gli hanno permesso di trionfare per 6-1 6-4. Altro che sport per handicappati.
In fondo, c’è anche un’altra differenza che separa il wheelchair dal tennis normale. Nel circuito il clima tra i giocatori è sempregioviale e rilassato, com’è naturale che sia. Non sentirai mai un tennista su carrozzina pronunciare la famosa frase del solitario Ivan Lendl: «Se desideri farti un amico nel tennis, comprati un cane» o condividere del pensiero della spagnola Garbine Muguruza, certa che l’amicizia tra tenniste sia impossibile. Sia chiaro: durante i match l’ardore e l’agonismo sono gli stessi, così come in egual modo bruciano le sconfitte. Ma durante le pause, lontano dai campi, i tornei diventano occasione di amicizia e di confronto collettivo, tra persone che hanno provato sulla loro pelle che ci sono cose più importanti di una partita di tennis. «Alcuni con la disabilità ci sono nati, ma la maggior parte di noi ha avuto un qualche tipo di incidente che li ha costretti a vita su una sedia», spiega Reid. «Spesso ci ritroviamo a fare alcune conversazioni molto profonde sulla vita e sulle comuni esperienze. Cerchiamo di dare un significato a quello che ci è successo, ci domandiamo se ciò ci ha cambiato e se avremmo voluto fare qualcosa di diverso».
Per gli atleti diversamente abili come Gordon, la famiglia è una parte fondamentale. Non solo come supporto affettivo, ma anche dal punto di vista pratico. Nel wheelchair tennis, se non sei un atleta di altissimo livello, non guadagni niente. Oltre al sostegno economico delle Federazioni, sono spesso i genitori ad accollarsi gran parte delle spese e ad accompagnarli in giro per il mondo per permettere ai propri figli giovani di seguire la loro passione. Gordon questo lo sa, e non manca mai di ringraziarli, dopo le sue vittorie. Così come gli amici, che quando possono lo seguono e gli stanno vicino. C’erano agli Australian Open, che dopo il suo match-point «si sono messi a gridare ed abbracciarsi come pazzi sugli spalti», o a Wimbledon, quando un gruppo più grande era venuto apposta direttamente dalla Scozia. Dopo la vittoria, Gordon si è precipitato ad abbracciarli, colmo di lacrime di gioia, acclamato da un grande applauso da parte di tutti gli spettatori. A Church Road il torneo di tennis in carrozzina esiste dal 2001, ma quest’anno, grazie alla vittoria di un britannico – anche se scozzese – ha avuto un successo senza precedenti.
«Il mio motto è: non pensare troppo a ciò che la vita ti ha tolto, ma concentrati su quello che tu puoi fare», ha detto Gordon Reid alla vigilia delle Olimpiadi. Oggi, a 24 anni, è ormai un giovane uomo maturo, che conosce i suoi limiti e i suoi punti di forza. Certo, da ragazzo un po’ indisciplinato lo era, così come un tantino insofferente alle infinite sessioni di allenamenti, anche perché in fondo non ne aveva bisogno. Proprio come Roger. La sua preparatrice atletica, Claire McDonald, che lo segue da quando aveva 15 anni, per lui ha solo parole di elogio: «È fantastico lavorare con lui. È professionale, ha una personalità forte e un atteggiamento sempre positivo», spiega. «Il wheelchair tennis è la sua vita. È sempre eccitato quando riesce ad andare avanti nei grandi tornei e quando vince è sulla vetta del mondo. Lo sport è tutto per lui».
Dicono che anche nelle disgrazie esistono dei lati positivi. Probabilmente è solo un banale proverbio di consolazione di chi queste disgrazie le subisce, ed è costretto a farsene una ragione. Ma forse non è del tutto così: Gordon Reid è diventato uno dei più grandi campioni al mondo di uno sport, cosa che probabilmente non avrebbe mai raggiunto da normodotato. Gordon Reid sarà ricordato. «Giocare a tennis su carrozzina mi ha dato così tante opportunità nella vita che non avrei mai ottenuto giocando a tennis con le mie gambe», afferma. «A soli 24 anni posso dire di aver girato il mondo. Ho giocato tutti i tornei dello Slam, ho conosciuto e condiviso lo spogliatoio con Roger, Andy e Rafa». Probabilmente la sua preparatrice atletica ha ragione quando afferma che Gordon «ha tirato fuori il meglio dal peggio». Certo, una medaglia d’oro a Rio de Janeiro sarebbe ancora meglio del meglio. «Cosa farò se vinco l’oro?», ha confessato ai giornalisti britannici prima di partire per «bé, probabilmente mi metterò a piangere». E Gordon Reid c’è riuscito, a conquistare l’ambita medaglia olimpica, battendo il connazionale Alfie Hewitt, che è anche il suo migliore amico fuori dal campo. Un nettissimo 6-2 6-1, al termine di una prestazione pazzesca, da campione «Ho raggiunto il mio sogno», ha dichiarato Gordon dopo il match-point. Il giorno dopo ha confessato di aver dormito con la medaglia d’oro e quella d’argento, conquistata in doppio, insieme – guarda caso – Alfie Hewitt. Un trionfo incredibile, pazzesco, che rende magico una stagione già da incorniciare. Gordon è al settimo cielo, ma sa anche che – al di là della vittoria e della sconfitta – in fondo si tratta solo di tennis. Anzi, di wheelchair tennis. Gordon Reid la sua sfida con la vita l’ha già vinta.