Può sembrare banale e scontato celebrare un’impresa a poche ore di distanza, e forse lo è ancora di più concentrarsi sul protagonista della stessa, come se l’unica prerogativa per addentrarsi dentro la carriera di un giocatore non proprio al top fosse una vittoria inaspettata o un risultato fuori dal proprio range.
Kevin Anderson, sudafricano di anni 29, nel corso della notte italiana si è preso il suo primo quarto di finale in un torneo Slam dopo 7 sconfitte su 7 agli ottavi, battendo nientemeno che Andy Murray, scozzese N.3 del mondo, in 4 set tutti fatti di cuore e dalla solita lucida follia che accompagna gli aspiranti guastafeste.
Se il percorso fatto fino ad oggi nel torneo newyorkese potrebbe sembrare scontato, con le vittorie su Andrey Rublev per 3-1, sulla wild card locale Austin Krajicek e sul N.20 Dominic Thiem in 3 netti set, stavolta il risultato del match con il coefficiente di difficoltà più alto è andato a finire nel modo che non ti aspetti, senza sospiri di sollievo per il top che recupera e vince, ma con tanti tanti applausi per chi se l’è meritata, senza se e senza ma.
Già, perché se Murray aveva pazientemente recuperato con il francese Mannarino al secondo turno da 0-2, con il francese che proprio non ne aveva più, stavolta il copione recitato da Anderson è arrivato agli occhi di chi guardava come una dimostrazione di forza, contro un avversario tutt’altro che in giornata no (solo 20 gli errori gratuiti a fine match per il brit), e con tante frecce nella propria faretra che meglio di così sarebbe stato difficile spendere (81 i vincenti).
Se c’è una cosa che davvero può ingannare gli occhi di chi legge, stavolta è il risultato, con tanti tie-break che non sono solo il frutto del lavoro sporco dei cannonieri dal servizio, bensì di un gioco che ormai da qualche tempo è assolutamente da rivalutare a seguito di una crescita ben calibrata che sta portando grandi risultati.
Colpa di chi bada troppo alla forma e poco alla sostanza, perché se spesso ci si prende la licenza di spaziare dai semplici giocatori brillanti dalla copertina facile, che il tennis spesso sia anche l’esatto opposto, con un lavoro certosino che ti ripaga anche se in pochi ti si filano, dovrebbe essere ormai un assioma per chi va oltre ai soliti canoni di gioco.
A margine della vittoria nel quarto turno degli US Open, l’esperto tennista sudafricano può dire di aver finalmente raggiunto quel gradino che potrebbe regalargli tante altre soddisfazioni in più nei tornei che verranno, anche perché a trovarselo davanti c’è da avere paura in qualsiasi torneo ed in qualsiasi situazione, andando a cancellare il suo ormai sbiadito status di “osso duro, ma fino ad un certo punto”.
Certamente potranno tornare le “vacche magre” nei risultati di Anderson, limite che spesso gli è stato affibbiato fino a questo punto della sua carriera, eppure il suo nuovo livello di gioco, con colpi risolutori e difese che lasciano poco al caso, lo mette su di un livello superiore a tutti quei bombardieri che di piano B non vogliono neanche sentir parlare, come troppo spesso si può riscontrare in John Isner o nel (forse) ancora acerbo Milos Raonic.
Paragoni a parte, è sicuramente troppo facile dargli adesso del campione, come lo è stato fino a poco tempo fa etichettarlo come giocatore di seconda fascia, però è certamente una mezza rivincita verso un ambiente che spesso filtra risultati e difficoltà solo in base alla risonanza mediatica ed a ciò che possono trasmettere certi elementi anche (o soprattutto) fuori dal campo.
Adesso si parla di Kevin Anderson, anche se non è proprio un fotomodello e se non sfascia racchette come se fossero bamboline voodoo, perché per fortuna il tennis non è solo immagine e media, non è solo rincorsa e noia: il tennis può essere tutto ed il contrario di tutto, e proprio per questo ci sarà sempre posto per chi non ha intenzione di essere un carneade fine a se stesso. Nel tennis, e negli occhi di tutti, ci sarà sempre posto per Kevin Anderson.