Vostra grandezza, le scrivo perchè i lettori di tenniscircus.com l’hanno eletta tennista della settimana, nonostante che l’abbia persa la finale nel palasport basileese dove gli elvetici presenti hanno trasgredito alla loro naturale compostezza per sostenerla e abbracciarla con un trasporto che sembrava tanto di commiato.
E non è facile trovare nuove cose da scrivere su un dio del tennis, lo può immaginare.
Lei è vecchio, per quanto può essere vecchia una divinità. Quando la inseriscono nei “Fab Four” con lo slavo, lo scozzese e il maiorchino, dimenticano di ricordare che quando l’ultimo dei tre è nato la sua apparizione sul nostro pianeta era già avvenuta da più di cinque anni. E cinque anni, anche in questo strano tennis in cui si allunga il periodo di attività, sono quasi una generazione di tennisti.
A scorrere la classifica ATP di lunedì scorso il primo tennista più anziano di lei è Tommy Haas, trenta cinque anni al n. 12. Poi c’è l’odioso Ferrer, addirittura n.3, venuto al mondo quando da quattro mesi la sua divinità disturbava le notti di papà Robert e mamma Lynette. Non è turbato da stare dietro a Ferrer? Dopo tanti anni? Non basterebbe come motivo per il ritiro.
Sono andato a ripescare il “Corriere della sera” che racconta la sua prima vittoria in un torneo ATP. “Corriere della sera” perchè quel successo avvenne a Milano dove, era il 5 febbraio 2001, ancora si disputava un torneo ATP al coperto che faceva, ci dicono le cronache, 25.000 spettatori per mezzo miliardo (di lire, c’erano ancora le lire) di incasso. Quel giorno battè un francese, tal Julien Boutter, oggi trentanovenne, che smise di giocare nel 2004 e che riuscì a vincere un torneo, dopo.
Quel giorno le davano ancora del “cantiere aperto” perché era sì il nuovo Sampras, ma Sampras alla sua età aveva già vinto gli US Open (già allora ci si lamentava delle crisi di precocità) e chissà se la sua spocchia, un giorno, sarebbe diventata grandezza. Allora era solo quello strano ragazzo che quando era in Davis servivano cinque sveglie per farlo alzare, con mamma preoccupata perché non chiamava mai casa e aveva un cuscino come portafortuna. Chissà dov’è finito oggi quel valoroso compendio. L’unica dichiarazione virgolettata di quel pezzo a firma Gaia Piccardi “Una liberazione. Qui ho imparato che si può vincere anche giocando male” suona oggi come uno sberleffo perché di vittorie malgiocate da allora ce ne sono state pochissime.
Chissà oggi, col sudafricano Anderson, il match per timbrare il visto per le Finals di Londra, se riuscirà a vincerlo malgiocandolo in una stagione dove la qualità è scesa ma sono arrivate anche le sconfitte. Ma perché non smette? Perché non si rifugia nell’empireo?
Perché vuole, parafrasando un suo precedessore meno dotato, giocarsi la sua via Crucis? Forse aveva ragione l’aedo del gesto infinito e torto quelli come me a non crederci.
Forse.