Marat Safin verrà ricordato sicuramente come uno dei più grandi geni della storia del nostro sport. Paragoni con John McEnroe posso sembrare azzardati ma se analizziamo bene il suo gioco astuto, ricco di geometrie impensabili, sarà facile trovare per Marat un posto nell’Olimpo dei grandi . Con i suoi capelli ricci aveva folgorato il mondo agli Us Open del 2001, quando sconfisse Pete Sampras in finale con una prestazione superlativa. Per rivederlo così in alto bisognerà però aspettare cinque anni con la sua vittoria agli Australian Open, coronata da un successo in semifinale contro Roger Federer, forse nel periodo migliore della sua carriera. Il grande problema di Marat come di tutti gli altri appartenenti alla rara specie dei geni, è quello della scarsa continuità. Nella sua bacheca polverosa si fanno spazio solo due titoli Major, troppo pochi per uno che non avrebbe sfigurato come allievo di Aristotele, il maestro dei sapienti.
PANTA REI – Ci fa sorridere sentirlo parlare nel 1999, appena diciannovenne e con ancora un mondo da scoprire. Il giovane moscovita idolatrava Kafelnikov e Sampras (inerme al fatto che solo due anni dopo lo avrebbe annichilito davanti al suo pubblico). Ascoltava i Metallica, come film preferito sceglieva il Padrino, amava lo Shaquille O’Neal e lo Spartak Mosca e sfrecciava sulle strade con una Wolkswagen Golf rosso fiammante. Su di lui diceva così: “Mi piace parlare con la gente. Mi rende sciolto. Preferisco trascorrere il mio tempo in mezzo alla gente, gli altri giocatori, il mio allenatore”. Adesso invece lo troviamo come un bellimbusto trentaseienne, che è tornato sul palcoscenico solo grazie alla – spesso inutile – IPTL. Ora parla di politica, e passato con un velo di nostalgia. “Dentro ho combattuto dure battaglie, perché quando sei dentro il campo, sei solo e combatti con te e contro il tuo avversario”.
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