In previsione del suo ventunesimo compleanno, Sloane Stephens si è registrata sul sito del centro commerciale Target e, dopo aver architettato una finta lista nozze ricorrendo al nome di sua madre come coniuge, ha inviato agli ospiti della festa organizzata per celebrare il suo anniversario di nascita, l’elenco di regali che vorrebbe ricevere. Tale lista era composta da trentuno regali, il più costoso dei quali coincideva in una cyclette da 306$. La proposta più bizzarra era però rappresentata da una tenda tripla da campeggio capace di contenere dodici persone. Prezzo di listino: 299$. Sloane Stephens è sempre stata la dimostrazione di come è possibile restare una ragazza semplice nonostante fama e milioni di dollari depositati in banca.
Che Sloane Stephens sia una rarità che attraversa il caotico circuito tennistico è possibile percepirlo da tanti piccoli dettagli. Dal comportamento della madre, una ex nuotatrice alla Boston University, che durante gli Internazionali d’Italia 2013 seguiva gli allenamenti delle colleghe della figlia scattando fotografie come potrebbe fare una qualsiasi appassionata. Dall’atteggiamento portato in campo da Sloane stessa, sempre educata, silenziosa, mai uno scatto di stizza, mai un’esultanza troppo chiassosa. Sarà perché, come ha affermato la Stephens: «La maggior parte delle giocatrici provano a fare cose cattive per intimidirti. Prendono tutto troppo sul serio. Per loro esiste solo il tennis. Per me il tennis è semplicemente un lavoro. La vita è troppo corta».
Questo aspetto agrodolce della vita, ossia che non si faccia in tempo a fissare il sole per ritrovarselo già precipitato oltre l’orizzonte di un tramonto, Sloane lo ha capito, lo ha vissuto, prima di compiere vent’anni. E forse tutto ciò, è parte del meccanismo che fanno di Sloane Stephens la ragazza discreta, un po’ schiva, senza dubbio diversa, da tutto ciò che la circonda.
Sloane Stephens è nata il 20 marzo del 1993 a Plantetion, una contea della Florida il cui nome deriva dal precedente proprietario del terreno, la Everglades Plantation Company; il cui motto declama: «The grass is Greener», «L’erba è più verde». Un ossimoro, in quanto Sloane cela nelle sue radici qualcosa di quell’America nera, tragica e crudele proposta da William Faulkner nei suoi romanzi. Il naufragio del matrimonio tra suoi genitori coincide con la fine di ogni rapporto tra Sloane e John Stephens, ex giocatore di football americano, stella dei New England Patriots; un campione fallito, schiavo dell’alcol, arrestato con l’accusa di stupro e che scontata la pena si dilegua in Louisiana.
È Sybil Smith, la madre saggia e coraggiosa come le mitologiche figure femminili di ‘Assalonne, Assalonne’; a seguire Sloane nella sua crescita di persona e di tennista, disciplina che inizia a praticare a nove anni. È per seguire le orme del suo patrigno, Sheldon Smith, un uomo “buono e generoso” che era solito frequentare un Tennis Club, che Sloane prende la racchetta in mano. I risultati sono sorprendenti tanto che appena tredicenne primeggia nei principali tornei juniores. Nel 2007 però il suo patrigno si arrende a un tumore e, insieme a quella presenza fissa a bordo campo, Sloane perde anche le motivazioni. Finché riceve una telefonata del padre naturale, un uomo ormai finito dai rimorsi e da una malattia degenerativa alle ossa. Insieme a John Stephens, la promessa statunitense ritrova anche l’amore per il gioco del tennis.
Ma come in ogni saga oscura il dolore è un vampiro mai sazio e due anni dopo non è il tumore a strapparle il padre, bensì un incidente stradale. Lei sta disputando gli US Open Juniores e, appresa la notizia, piange per un’ora poi è andata ad allenarsi. Vinto il match di primo turno, gli organizzatori le concedono un giorno libero in più per presenziare al funerale in Louisiana, ma a convincerla a partire sono le parole di Brian de Villiers, il coach di Melanie Oudin; a sua volta orfano del padre in giovane età, il quale ha raccontato a Sloane come la scelta di non partecipare alla cerimonia funebre rappresentasse un rimpianto fisso. Di ritorno a New York la Stephens ha ceduto 4-6 6-0 6-1 a Jana Cepelova, ma oltre ad avere il cuore a pezzi l’americana era forse già tormentata da una domanda destinata a divenire una costante: «A volte mi chiedo chi potrà mai accompagnarmi lungo la navata quando mi sposerò».
Nel 2011 Sloane Stephens fa il suo ingresso tra le top 100 ma la scalata ai piani alti del ranking avviene solo nel 2012 quando raggiunge il terzo turno sia a Wimbledon che all’US Open e gli ottavi al Roland Garros per terminare l’annata come n.38 del mondo. A gennaio 2013 il destino dell’americana compie quindi l’ennesima sterzata. Ai quarti di finale del torneo di Brisbane, Sloane Stephens affronta uno dei suoi idoli d’infanzia, Serena Williams. Quest’ultima dal canto suo, conosce a malapena quella ragazzina che, al cospetto di un plateale «come on» urlato da Serena sulla pallina che procura il break nel primo set, sente crescere in se’ una profonda amarezza. Già altre volte Sloane era stata assalita dal dubbio di «non aver niente a che fare con quell’ambiente». Dopo il 6-4 6-3 inflittale dalla Williams, ma soprattutto dopo quello sfacciato “come on”, Sloane forse ha un’altra conferma di non possedere quel killer instict che accomuna le grandi campionesse.
A Melbourne però dimostra, soprattutto a se’ stessa, che il tennis non si sostenta certo solo di cattiveria agonistica e, facendo leva sul suo tennis dinamico, la pallina che le parte dalla sua racchetta con leggerezza per poi solcare la metà campo avversaria producendo forza e profondità, sconfigge nell’ordine Safarova, Mladenovic, Robson e Jovanovski per poi apprestarsi ad affrontare ai quarti nuovamente Serena Williams. Sul 3-6 2-0, un risentimento muscolare alla schiena di cui soffre Serena, facilita Sloane nel rendersi protagonista di una rimonta che si conclude con uno storico 3-6 7-5 6-4 capace di garantirle la sua prima semifinale slam. Qui, sopraffatta da Victoria Azarenka, si conclude l’avventura della giovane yankee. Inevitabilmente, l’exploit conseguito all’Australian Open fa sì che i riflettori si posino su Sloane la quale, un po’ accecata da tanta attenzione, tentenna fino a giugno quando finalmente ritrova quel minimo di fiducia che le permette di agguantare gli ottavi al Roland Garros dove viene battuta da Maria Sharapova, e i quarti a Wimbledon dove è superata da colei che si aggiudicherà il titolo, Marion Bartoli. La responsabilità di affrontare il cemento di casa la attanaglia e se si esclude un successo su una menomata Sharapova a Cincinnati e gli ottavi raggiunti all’US Open, non si rilevano acuti. Da qui alle vacanze di fine anno non vince più di due match di fila, eppure il computer la riconosce come n.11 del mondo.
L’alba del 2014 suggerisce mastodontiche aspettative, ma la trama si dispiega sotto all’insegna dell’incoerenza. I soli cinque game raggranellati con Victoria Azarenka agli ottavi dell’Australian open, le batoste subite al primo turno di Doha e Dubai, lo stop ai quarti di Indian Wells – quando opposta a Flavia Pennetta nel terzo set conduceva 3-0 con tanto di due chance per il 4-0 – per quindi proseguire una annata in cui, se si escludono gli ottavi al Roland Garros, mai svalicherà il terzo round, con tanto di uscita di scena al primo round di Wimbledon; attestano le difficoltà nell’imporre la propria personalità da parte della tennista proveniente dalla verde Plantation. La mancanza di continuità pare essere una sgradevole costante nella carriera della promessa a stelle e strisce. Ciò, nonostante la stagione successiva le porti in dono il primo titolo WTA sul cemento di Washington. Qualche buon piazzamento come gli ottavi di Indian Wells, i quarti di Miami e le semifinali a Strasburgo ed Eastbourne compensano alcune debacle – tra cui i primi turni negli slam di Melbourne e New York – consentendole comunque di chiudere il 2015 come n.30 del mondo. Ad ogni modo, la è che il potenziale di cui è provvista la possa far ambire a tutt’altre mete.
Per quanto si rivelino esaltanti i primi sei mesi del 2016 dove Sloane mette le mani sui trofei di Auckland, Acapulco e Charleston – i quali le garantiscono il ticket come n.20 del mondo – altrettanto avara di soddisfazioni si dimostra la restante parte di stagione scandita da tre secondi turni, due terzi turni e ben tre primi turni; finché a fine agosto una frattura da stress all’osso navicolare del piede sinistro la costringe a chiudere la saracinesca. Peggio ancora. L’infortunio si rivela ancora più grave del previsto e deve sottoporsi ad un intervento chirurgico. Tra dolorose sedute di rieducazione e qualche telecronaca per Tennis Channel, Sloane ha tempo per pensare, per capire: «Dopo l’operazione non riuscivo a fare nulla. È stata un’esperienza difficile, però devo dire che la frattura da stress è guarita insieme agli altri stress. Ero entrata nel vortice dei punti, delle classifiche, delle etichette che ti vengono cucite addosso. Ora vedo tutto in modo più semplice».
A prenderla per mano verso il rientro alle gare avvenuto a luglio 2017 è il fedelissimo coach Kamau Murray e il fidanzato che conosce sin dalle elementari e al giorno d’oggi è un calciatore tra le file del Toronto, Jozy Altidore. I primi turni a Wimbledon e Washington la fanno sprofondare a n.957 del ranking. Sloane però non guarda più ai numeri. Si concentra sul campo. Ed ecco che a Toronto si issa fino in semifinale. Lo stesso avviene a Cincinnati. Alla vigilia dell’US Open è n.83 del mondo. Conscia della propria completezza tecnica, la ventiquattrenne di Plantation fa leva sul suo tennis solido per scrollarsi di dosso Roberta Vinci, Dominika Cibulkova, Ashley Barty e Julia Goerges, accarezzando così il primo quarto in uno slam dal 2013. Al che, con Anastasia Sevastova, si getta anima e corpo in una battaglia che si conclude con il punteggio di 6-3 3-6 7-6(4) dopo due ore e 28 minuti. In semifinale si ritrova opposta a Venus Williams e, dopo due set senza storia per parte, Sloane sferra la zampata nel terzo frangente, che azzanna per 7-5. Nell’atto cruciale, dall’altra parte della rete c’é una delle sue migliori amiche, Madison Keys, tra l’altro allenata da Lindsay Davenport, l’ultima statunitense che non si chiama Williams capace di vincere il Major di casa. Una finale senza pathos terminata in 6-1 minuti con soli tre game game concessi da Sloane nel primo set. Il pathos, è tutto nel cuore di Sloane Stephens.
Il verde è notoriamente considerato il colore della speranza, eppure Slawomir Idziak, straordinario direttore della fotografia di vari film di Krzystof Keislowski, era solito far costruire appositi filtri verdi da applicare davanti all’obiettivo della macchina da presa in quanto, tramite essi, il mondo diventava più crudele, più cupo e più vuoto. Il Verde è il colore simbolo del luogo in cui Sloane Stephens ha visto la luce, Plantation. Quei filtri Sloane li ha vissuti sulla propria pelle. Quei filtri l’hanno cambiata. L’hanno resa capace di superare dolori personali laceranti, di combattere infortuni, di respingere le ombre, di tornare in top 20, di entrare nella storia, da cui, dopo New York, non uscirà mai più.