Tennis. Un sorriso quasi di superiorità, gli occhi della tigre e un gioco liscio come l’olio, condito da un rovescio che a tratti fa sognare. I tre punti di Stan Wawrinka, che se non è una campagna elettorale poco ci manca.
Dodici mesi dopo l’impresa di Melbourne, stesso posto e stesso bar ad ospitare il Salieri del tennis elvetico, con la prova più difficile che dirà al mondo intero quanto c’è di vero che Stan quel titolo può riprenderselo di cattiveria e, rubando il termine ai troppo impegnati colleghi del mondo del calcio, di giustezza.
Stan Wawrinka, quello con l’indice portato verso la tempia, è un po’ come i film cult dell’anteguerra, come i liquori d’annata o lo snooker: lo ami oppure non riesci a fartelo piacere più di quel tanto. Eppure gli anni hanno confermato che il bravo, ma non abbastanza si è effettivamente evoluto, nel gioco e nella grinta messa in campo, con sempre meno blackout e sempre più ricami da far battere il cuore, e anche il più Erreffeista del circondario sarà arrivato alla conclusione che in Coppa Davis senza Stan the man ci sarebbe stato poco da fare.
Se a uno piace il tennis, al di là del preferito di turno o della terra natìa, uno così deve celebrarlo, soprattutto in un’epoca di botte da orbi e cannonate sparate dai due metri di altezza, spesso e volentieri, perché Wawrinka viaggia a metà tra le frustate ed i tratti di un pennello magistralmente manovrato da un artista, con una carriera che non è mai rimasta ferma, neanche per un giorno, con la lenta e costante evoluzione che lo ha accompagnato fino a fargli raggiungere i fasti odierni e, così dovrebbe essere, anche futuri.
Mancano soltanto pochi mesi al raggiungimento del trentesimo anno di età, e la speranza è che il fisico non risenta troppo dell’inesorabile scorrere del tempo, anche perché la nazionale rosso-crociata dopo lui e Re Roger sembra andare incontro ad un foglio bianco, e chissà quanto potrebbe durare.
L’eventualità, o comunque un momento ancora piuttosto lontano, non devono comunque distogliere l’attenzione dallo Stan dell’ultima ora, quello che ha vinto più volte a Chennai che a carte con gli amici e che si accinge a trascorrere tra i top 30 il decimo anno consecutivo, anche perché se l’Open australiano del 2014 ha rappresentato un risultato incredibile, vista anche la ormai acclarata egemonia dei FabFour che sembrava difficile da scardinare, è anche vero che le carte ormai sono in tavola sotto gli occhi di tutti e sebbene Djokovic sia il solito mostro sacro di sempre, un precedente così importante costituisce comunque una chance ulteriore di ripetere a se stessi che tutto ancora è possibile, senza remore o timori reverenziali.
Comunque sia, non serve più un titolo di testa a presentarci ciò che ci ritroveremo davanti nella semifinale ormai già saldamente al centro del programma giornaliero: Djokovic si presenterà come un gladiatore nell’arena, con l’ovazione di un pubblico esagitato per l’incontro, conscio dei suoi mezzi, della sua lucidità e del muro che sembra avere dietro di sé nei momenti più brillanti. Stan si presenterà da campione in carica, anche se qualche scongiuro lo tirerà lo stesso, e con la solita faccia da bimbo ferito che ha voglia di vendicarsi sul bullo di turno, che sia a suon di schiaffi o di carezze è ancora da stabilire.
Se ci si trova per strada, in un locale una sera come tante, o semplicemente in un ristorante dal clima tranquillo, trovarsi davanti uno strafottente pieno di sé è una tra le peggiori cose possibili, con tutto ciò che ne consegue, eppure su di un campo sportivo se non si infrangono le regole la personalità può diventare caratteristica e quasi una sorta di asso nella manica, quando tutto sembra forma e per vincere serve invece quasi solamente la sostanza.
Vai Stan, dunque, poetico e strafottente come solo tu sai essere.